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Quando la trasgressione è diffusa per tornare alla legalità occorre una reazione sociale del prof. Marco Vitale

marco-vitale.jpgIn un intervento al Circolo Libertà e Giustizia di Milano Marco Vitale, economista d’impresa, già docente all’Università di Pavia e all’Università Bocconi di Milano, ha affrontato i temi quanto mai attuali dei limiti della cosiddetta “etica d’impresa” e della responsabilità individuale dei manager. Ne riportiamo una sintesi.


Quando la trasgressione è diffusa non bastano corrette norme giuridiche, adeguate sanzioni e buoni giudici per tornare alla legalità. Per coloro che violano le leggi, le sanzioni più temibili – prima ancora di quelle penali – dovrebbero essere l’indignazione e il disprezzo sociale.Purtroppo, a fronte di palesi e generalizzate violazioni, le reazioni della comunità nel suo insieme sono spesso assenti, o troppo timide, in rapporto ai danni arrecati alla concorrenza, al mercato e al Paese. Luciano Gallino, in un recente scritto dal titolo “L’impresa irresponsabile” afferma che mai come negli ultimi quindici anni si è tanto scritto su etica e responsabilità sociale dell’impresa. Nello stesso periodo, a fronte di tanto interesse, sono invece cresciuti in maniera preoccupante i casi reali di irresponsabilità delle imprese.In effetti della Business Ethics si cominciò a parlare in America verso la metà degli anni Ottanta. In una lezione in Bocconi tenuta nel 1988 ponevo gli studenti all’erta di fronte alla moda della Business Ethics; con l’aiuto di Aristotele distinguevo tra l’etica – generale e unitaria, una e indivisibile – e le regole di comportamento professionale. I principi basilari di ciò che è giusto, di ciò che è sbagliato, sono stati scoperti dall’uomo, non inventati. Ne consegue che l’etica è una sola, quindi non si può ripartirla per arti e mestieri. Quando negli anni successivi si sviluppò l’altra moda dei codici etici d’impresa, sostenni che davo poco valore a queste mediocri parafrasi del Codice penale e dei Dieci comandamenti. Non che non possano essere strumenti utili, soprattutto nelle grandi imprese. Ma restano semplici strumenti. Molte delle imprese dove sono state commesse efferate scelleratezze erano dotate di codici etici giudicati eccellenti e pagati a caro prezzo, di consiglieri indipendenti, di comitati audit e di tutti gli altri marchingegni con i quali ci si illude, invano, di ovviare alla mancanza di coscienza e responsabilità individuale del top management… Peter Drucker, a proposito del ruolo del manager, scriveva nel 1954: “l’integrità morale: requisito fondamentale di oggi e di domani. L’istruzione intellettuale non sarà sufficiente, da sola, a fornire a un dirigente i mezzi necessari per far fronte ai compiti che lo attendono nel futuro. Il successo del dirigente di domani sarà sempre più strettamente connesso con la sua integrità morale… i rischi connessi saranno talmente gravi da esigere che il dirigente anteponga il bene comune ai suoi stessi interessi. La sua influenza, su coloro che lavoreranno con lui in azienda, sarà cosi decisiva che il dirigente dovrà basare la sua condotta su rigidi principi morali, anziché su espedienti”. Una figura e un ruolo non solo teorici, ma che per citare un esempio recente – si ritrovano nell’agire dei due dirigenti Bankitalia i quali, nell’estate scorsa, si erano opposti alla scalata BPI ad Antonveneta con precise motivazioni. I massimi organi della Banca Centrale stavano già per metterli sotto inchiesta, quando furono salvati dalla stampa… Infine è venuta la moda dell’impresa socialmente responsabile e la confusione, se possibile, è ancora aumentata. Il filone, impropriamente denominato come filone dell’etica d’impresa, non ha niente a che fare con l’impegno dell’impresa ad assumersi compiti di assistenza sociale o filantropica … Si tratta di aspetti ben distinti, il primo si interessa dell’impresa in sé, dei suoi comportamenti nello svolgimento della sua normale e specifica attività. L’impresa deve, per la sua sopravvivenza, nel suo interesse, non come fatto d’immagine ma come fatto sostanziale, cercare continuamente di conciliare la ricerca del profitto con la stabilità dello sviluppo e con il rispetto dei terzi, dell’ambiente, della società. Deve essere, quindi, sempre e naturalmente socialmente responsabile, come del resto deve fare ogni buon cittadino. Questo filone che cerca di indirizzare tutte le imprese verso comportamenti corretti e utili, non ha niente a che fare con i contributi che le imprese possono decidere di dare per l’assistenza sociale. Vi può essere un’impresa dai comportamenti virtuosi, che merita il giudizio positivo delle agenzie di rating sulla responsabilità sociale, che non dà nulla in beneficenza o nel sostegno di politiche di welfare. Vi può essere invece un’impresa pessima, corrotta e corruttrice, che sfrutta i minori nel Terzo Mondo, evade le imposte, produce e vende prodotti pessimi e che spende molti soldi in assistenza e beneficenza…la storia e la cronaca sono piene di imprese di questo tipo che brillano come contributori di assistenza sociale, proprio perché sperano, in questo modo, di comprarsi la benevolenza dei politici, della Chiesa, della stampa e dei giudici per i propri comportamenti antisociali. Allora, dobbiamo mettere da parte le tematiche sulle responsabilità etiche dei manager? Tutt’altro. Mai come oggi esse sono importanti. Ma dobbiamo liberarle dal cabarettismo e ricollegarle alla teoria dell’organizzazione, dell’impresa e del management. E non trascurare il ruolo essenziale che deve avere la reazione della comunità.


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