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1 / UIL: valorizzare i meriti per ridare efficienza al lavoro pubblico Paolo Pirani, Segretario Confederale UIL

pirani%20uil.jpgRiaffermare il merito per far funzionare meglio l’amministrazione, è la svolta significativa compiuta dalla Uil al convegno “Dare valore al lavoro pubblico: qualità meriti e cittadinanza” tenuto a Roma. La nostra spesa pubblica – ha sottolineato nella sua relazione Paolo Pirani – non è più elevata di quella degli altri paesi europei: sono gli interessi che paghiamo sul debito – quasi doppi della media europea – il vero problema. Non si tratta quindi di “tagliare” ma di “dare efficienza” alla spesa pubblica. I tagli – suggerisce Pirani – andrebbero semmai fatti nei costi impropri della politica, nella marea infinita di commissioni e segreterie e nella pletora di addetti e portaborse. Per la pubblica amministrazione vera, ridare efficienza richiede invece una effettiva rivalutazione del merito. Aver consentito che si affermasse come regola generale quella secondo la quale “il merito non paga” causa infatti un doppio danno: consente di premiare impiegati pigri e poco capaci e demotiva quelli che, viceversa, sarebbero più competenti e impegnati. Le colpe di questa situazione sono soprattutto dello Stato: datore di lavoro “debole”, interessato soprattutto alla massimizzazione del consenso. Di qui la difficoltà del sindacato, costretto a giocare un doppio ruolo, a farsi carico di questioni – l’efficienza, la produttività – che nel settore privato sono la preoccupazione principale del datore di lavoro. D’altra parte – come ha messo in rilievo Angeletti nelle sue conclusioni – se lo Stato non funziona i danneggiati non sono i ricchi o i benestanti, sono i soggetti più deboli. L’interesse del sindacato a che la pubblica amministrazione funzioni nasce dal suo impegno sociale. Riportiamo di seguito stralci della prima parte della relazione di Pirani. La seconda parte sarà pubblicata nei prossimi giorni.
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(…) Se guardiamo al Paese ciò che emerge è una profonda esigenza di equità e giustizia concentrata soprattutto nelle fasce più deboli. Il problema è che la politica non è vissuta come uno strumento al servizio di quel riscatto ma come una parte del problema. Nasce da qui il pericolo di un nuovo populismo, dal fatto che le forme dell’esclusione sfuggono alle mediazioni tradizionali della politica. Da dove passa lo slancio innovatore?
Stabilizzare 200 mila precari nella P.A. è innovativo o in continuità col passato? E d’altronde stabilizzare chi lo merita e ragionare di produttività nella P.A., condurre sul reddito una battaglia per la dignità delle persone e il riconoscimento delle capacità, tutto questo è più rischioso ma più coerente con l’innovazione di cui ha bisogno il paese.
È importante l’idea che i cittadini si faranno delle nostre idee se le percepiranno come novità piuttosto che come continuità con il passato. La sfida è con la modernizzazione del paese e con una società radicalmente mutata.
Nel paese tutti i settori della società e dello Stato sono in sofferenza: dalla sanità alla giustizia, dalla sicurezza alla scuola, dalle infrastrutture alla ricerca, dagli enti locali all’assistenza, non c’è settore che non si percepisca come sottofinanziato e non domandi maggiori risorse.
D’altra parte il vero differenziale è l’enorme debito pubblico accumulato. Mentre, infatti, la percentuale di prodotto interno lordo che l’Italia destina ai vari settori di spesa pubblica è nella media europea, l’incidenza della spesa per interessi sul debito è quasi il doppio dell’area dell’Euro.
Insomma: senza un rilancio della crescita di almeno il 2% all’anno, sono impensabili sia un politica di investimenti, sia una significativa redistribuzione orizzontale, da un settore all’altro.
La verità è che il problema principale del Paese è il grave ritardo, accumulato negli anni, nella modernizzazione complessiva del nostro sistema economico e sociale. Non si tratta tanto di “tagliare”, perché non ci sono margini per significativi tagli quantitativi alla spesa.
Si tratta, invece, di riqualificare, risanare, razionalizzare, ristrutturare. Bisogna fare di più e meglio con le stesse risorse. Il che, spesso, è molto più difficile che tagliare.
Le difficoltà ci parlano di una crescente estraneità dei cittadini alla vita politico-istituzionale. Come potrebbe non essere così di fronte ad una politica che troppo spesso si manifesta non già impegnata a scegliere, a costruire, a fare, quanto piuttosto dispersa nel chiacchiericcio inconcludente, nell’esternazione estemporanea, nella quotidiana ricerca di una piccola visibilità fine a se stessa?
Serve la messa in campo di nuove energie coesive che spingano la politica, la classe dirigente nel suo insieme e in definitiva la società italiana tutta, a trovare il senso, la passione, la determinazione a perseguire l’interesse generale non come mortificazione ed appiattimento mediocre, ma come valorizzazione del talento e del merito, visti come prezioso bene collettivo. Questo non può essere frutto di una politica economica, ma ne è semmai il presupposto.
Il Paese, le imprese e i cittadini chiedono oggi una amministrazione più efficiente: uno Stato migliore. E questo obiettivo deve essere perseguito non inseguendo mode effimere ed inutili, quando non addirittura dannose, quanto piuttosto ripristinando un sistema basato sul rigore nell’applicazione delle regole, sulla chiara individuazione delle responsabilità amministrative e sul conseguente riconoscimento delle capacità decisionali in capo ai soggetti titolari delle relative funzioni. Il passaggio a uno Stato efficiente può, cioè, avvenire solo se si interviene su quei perversi meccanismi che da troppo tempo bloccano uno sviluppo serio della nostra P.A.; solo eliminando iniqui privilegi e ridando fiducia e opportunità al cuore nevralgico del sistema sarà possibile migliorare l’attuale.
I tentativi di introdurre nella nostra P.A. criteri meritocratici, processi di valutazione delle prestazioni, rapporto fra retribuzione e qualità della prestazione non hanno fin qui sortito gli effetti che ci aspettavamo. E i primi ad essere penalizzati da tale situazione sono proprio i tantissimi pubblici dipendenti capaci e motivati ma che oggi sono disincentivati a perseguire obiettivi di efficienza. Aver consentito che si affermasse come regola generale della nostra amministrazione quella secondo la quale “il merito non paga” causa un doppio danno: consente di premiare impiegati pigri e poco capaci e demotiva quelli che, viceversa, sarebbero più competenti e impegnati.
Ma le colpe sono spesso del datore di lavoro: lo Stato. Non c’è dubbio che la pubblica amministrazione sia, per la sua stessa natura, un datore di lavoro “debole”. Il datore di lavoro pubblico è infatti interessato soprattutto alla massimizzazione del consenso politico.
Negli ultimi dieci anni si è assistito a una costante serie di riforme che avrebbero dovuto, almeno negli annunci, incidere radicalmente sull’ organizzazione del lavoro pubblico (si pensi alle varie riforme del sistema scolastico) e conseguire obiettivi di finanza pubblica “rigorosi” per alleggerire l’economia nazionale del peso, sempre più gravoso, del debito pubblico.
Nel totale e condiviso rispetto del valore fondamentale dello Statuto dei lavoratori appare necessario mettere le basi per una nuova stagione delle relazioni tra sindacato e pubblica amministrazione. L’avvio di una riflessione più generale sulla necessità di risolvere certe interferenze, se non sovrapposizioni, tra la sfera politica e quella amministrativa rappresenta il segnale più tangibile di un’anomalia che ha le sue inevitabili ripercussioni anche nella gestione ordinaria della amministrazione pubblica.
Sarà opportuno orientare il confronto sul ruolo del sindacato nella P.A. a principi di equità tra settore pubblico e settore privato, nel solco di una politica di lotta agli sprechi e alle inefficienze nelle pubbliche amministrazioni, rivendicando una vera politica per il pubblico impiego. La UIL in particolare per le caratteristiche che la contraddistinguono può allargare il proprio spazio nella società e nel mondo del lavoro, proprio affrontando con decisione i temi che si ritiene essere ostativi allo sviluppo del Paese.
Il primo fra tutti è la destinazione al sociale delle risorse economiche che oggi copiosamente vengono drenate dall’esercizio del potere, da non confondersi con i costi della democrazia che sono altra cosa. Appannaggi di governatori, presidenti, sindaci, assessori, ministri, parlamentari, consiglieri, gestori di agenzie strumentali attorniati da masse sempre più numerose e onerose di consulenti, collaboratori, portaborse e appaltatori assorbono in modo inaccettabile risorse da destinare in adeguate azioni di modernizzazione e efficienza del servizio e di valorizzazione del lavoro. Il sindacato, la UIL possono rappresentare la forza propulsiva di rilancio, di innovazione. Dobbiamo saperci mettere alla testa dell’inevitabile azione riformista del Paese anche per togliere ogni alibi a chi scarica sul più o meno presunto conservatorismo sindacale proprie responsabilità di insipienza politica o soggezione corporativa.
E’ necessario che proprio dai livelli dirigenti e professionali si torni a considerare la meritocrazia, come strumento di valutazione corretto e garantito da parametri di valutazione certi e partecipati. Il settore pubblico è considerato un costo, noi consumiamo risorse: è vero. Anzi nel tempo i costi di alcuni settori, sanità, ricerca, scuola, ecc. saranno destinati ad aumentare. Ma il problema vero è stabilire se questi costi sono investimenti destinati a fornire servizi adeguati e, contemporaneamente, a diventare volano di sviluppo ed innovazione, oppure no. Quindi chiediamo e offriamo impegno di maggiore efficienza.
Una Pubblica amministrazione sempre più efficiente e sempre più attenta alle esigenze dei cittadini e delle imprese rappresenta un fattore decisivo per la crescita economica. Bisogna evitare quindi che proprio l’eccesso di burocratizzazione possa costituire uno dei maggiori ostacoli al dispiegarsi di un progetto di sviluppo. Anche la Pubblica amministrazione, insomma, è un’autentica risorsa poiché la sua efficienza può trasformarsi in efficienza per il Paese.
Per affermare e radicare questo principio e per esercitare un ruolo più concreto in questa direzione, Il Sindacato ha bisogno di disporre di un effettivo sistema contrattuale articolato e decentrato che lo metta in condizioni di incidere sui processi riorganizzativi e di tutelare con maggiore efficacia, secondo criteri di trasparenza, professionalità e produttività, i lavoratori della Pubblica amministrazione, come condizione necessaria per il pieno soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e delle imprese. Nonostante le enormi difficoltà esistenti, se la macchina amministrativa continua a funzionare lo si deve a milioni di persone che lavorano al servizio della collettività. Una adeguata valorizzazione del lavoro pubblico sarebbe, dunque, un elemento oltre che di giustizia anche di efficienza economica.
Una conquista culturale degli anni ’90 in Italia è stata quella di considerare il settore pubblico una risorsa collettiva che andava valorizzata, ponendo al centro i servizi, i bisogni dei cittadini e delle imprese e, quindi, le professionalità necessarie per avere un’amministrazione moderna.
I processi avviati negli ultimi anni di riqualificazione del personale (oltre 2 milioni di riqualificazioni), di investimento in e-government, di creazione di consorzi e società partecipate avrebbero dovuto portare ad un’amministrazione più snella e più efficace. Le riforme di questi anni dovevano avere al centro l’efficienza e la qualità dei servizi, andando incontro alle imprese e ai cittadini.
Abbiamo assistito invece ad una delle tante collusioni che caratterizzano il nostro Paese e che hanno portato ad avere un’amministrazione usata come ammortizzatore sociale nonché come patrimonio privato della politica. Un’amministrazione utilizzata per produrre consenso e non servizi secondo logiche premoderne.
Chiunque gestisca un’organizzazione, pubblica o privata che sia, sa bene che il successo e l’efficienza non derivano dal numero di persone impiegate, ma dalla qualità delle stesse. Gli investimenti fatti in questi anni nel settore pubblico, tra aumenti contrattuali, passaggi di carriera e investimenti in tecnologie, dovevano portare ad un’amministrazione di professionalità e di competenze, senz’altro più leggera ma, al contempo, più efficace.
Chi vuole un settore pubblico che funzioni non può sostenere un incremento del personale senza concorso e in maniera indiscriminata, prescindendo dai fabbisogni e dalle funzioni. Le imprese, così come i cittadini, hanno il diritto ad avere funzionari e dirigenti pubblici preparati e autorevoli nella P.A. Indebolire la dirigenza con continui spoil system, anche ad personam, non fa altro che bloccare il processo di aziendalizzazione e favorire l’occupazione “patrimoniale” delle strutture e delle risorse pubbliche.
Anche il Governo precedente aveva promesso liberalizzazioni e meno Stato. Abbiamo avuto, invece, più e peggiore Stato, consumando aspettative e speranze di imprenditori e cittadini. Gli enti inutili non sono stati né individuati, né soppressi. Al contrario, migliaia sono state le società partecipate, i consorzi, le unioni di comuni, le province, le aziende speciali, gli ambiti territoriali e altro, creati dalle pubbliche amministrazioni negli ultimi cinque anni per aggirare le norme sul patto di stabilità e sulla concorrenza in materia di servizi. Il tutto si è esaurito in una serie di incrementi retributivi, che si rivelano, alla luce dei livelli dei servizi, eccessivi per chi non produce e irrisori per chi è preparato e si impegna con entusiasmo.
Non si comprende, infine, l’importanza che rivestono i comportamenti dei soggetti pubblici in termini di buoni esami e di etica pubblica. Far capire ai tanti giovani italiani preparati che è premiante stare dietro una segreteria di un assessore o di un amministratore per strappare un contratto flessibile, che poi diventerà a tempo indeterminato, piuttosto che impegnarsi e studiare è il peggior messaggio che una classe dirigente politica può dare al futuro del proprio Paese. Far sapere che il dettato costituzionale che prevede la selezione pubblica e il merito può essere agevolmente sacrificato sull’altare della politica è altrettanto grave e irresponsabile. Dire infine che “le tipologie contrattuali non a tempo indeterminato” sono di per sé “lavoro precario” rasenta l’assurdo, introducendo giuridicamente un giudizio ideologico sul lavoro a termine che danneggia gravemente il mercato del lavoro italiano e il quadro delle opportunità per gli outsider, ovvero i giovani.
La politica pensa erroneamente che per avere i voti dei dipendenti basti rinnovargli i contratti nel modo in cui avviene ormai da decenni: in ritardo e senza collegare la retribuzione alla prestazione e all’innovazione. I dipendenti pubblici sono capitale umano che vorrebbe essere motivato con obiettivi utili e con un’organizzazione del lavoro e competitività. La riforma del Titolo V doveva portare ad una riduzione delle amministrazioni centrali dello Stato e, invece, ha portato ad un proliferare di legislazioni e di apparati che rendono ancora più difficile introdurre criteri di responsabilità e di meritocrazia.
L’atteggiamento dei partiti nei confronti del settore pubblico fa emergere tutta la debolezza della odierna classe politica, impegnata ad inseguire le paure e i particolarismi di una società inevitabilmente aperta ai processi di trasformazione globali, piuttosto che attenta e preparata a far fronte alla domanda di governo che viene dal paese.
Su questo terreno si giocano molte partite importanti che riguardano:
la capacità della Pubblica Amministrazione italiana di offrire ai cittadini/utenti una gamma di servizi confrontabile, per qualità, accessibilità, tempi e tariffe, nonché per ampiezza di bisogni coperti, con l’offerta pubblica dei paesi ad economia avanzata e, soprattutto, dei principali partners europei;
il problema dei costi della Pubblica Amministrazione;
la “questione lavoro” nella Pubblica Amministrazione”.
Non è da oggi che il sindacato rivolge alla Pubblica Amministrazione ed al lavoro pubblico un’attenzione che va ben oltre la difesa dei diritti e delle legittime aspettative dei lavoratori pubblici, per coniugare quelli e queste con i diritti e le aspettative, altrettanto legittime, dei cittadini e degli utenti.


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