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Everyman di Roth di Luigi Alviggi

everyman.jpgPhilip Roth è nato a Newark, nel New Jersey, nel 1933. Di famiglia ebraica, il suo capolavoro è considerato il romanzo “Pastorale americana” (vincitore del Premio Pulitzer nel 1998), un libro di cult per la letteratura mondiale. Esso tratta le vicende di un ebreo, Seymour Levov, che, per i suoi tratti somatici, viene chiamato lo Svedese, e fotografa la media borghesia statunitense degli anni 50-70 del secolo scorso. Lo svedese vorrebbe vivere in linea con i valori del gruppo di appartenenza, del grande sogno americano di benessere e libertà, ma il divenire della figlia Merry - negli anni della guerra in Vietnam - terrorista, sconvolgerà il suo faticoso equilibrio, facendolo trovare sbalzato fuori dall’idillio “pastorale americano”, alle prese con l’irreparabile andata in pezzi dei suoi grandi ideali.

Il modo migliore per raccontare la vita di un uomo è quello, se ci pensate bene, di iniziare dal suo funerale. È allora, con parenti ed amici raccolti intorno alla bara che sta per scomparire nella terra - non mi si tacci di essere macabro - che può partire, in tutta la verità, l’intera storia delle sue vicende terrene. Ed è proprio da qui che parte Roth in “Everyman” (2006).
Il titolo - rimasto invariato nelle varie traduzioni del romanzo - nasce da una rappresentazione allegorica inglese del ‘400 che ha per soggetto la chiamata, inevitabile per tutti i viventi, alla morte.

ROTH1.JPG
Del protagonista, un pubblicitario di successo morto durante una delicata operazione di stent carotideo, non conosciamo il nome in tutto il romanzo: l’autore intende in tal modo universalizzare la storia narrata. La prosa di Roth è consequenziale: essa scorre in maniera ineluttabile, come il tempo per la vita umana. Sotto i nostri occhi, rigo dopo rigo, prendono corpo le vicende di un’esistenza comune, che può essere la nostra oppure quella del vicino della porta accanto, banali eppure straordinarie per le sfaccettature che rendono ciascuna di esse unica ed irripetibile. Amori, tradimenti, delusioni, figli, gioie, lavoro, sono il corredo della vita di ciascuno, e questa vuole essere la storia emblematica di qualsiasi uomo. Viene affrontato il tema eterno della vita e della morte, del loro rapporto, della loro lotta incessante. Eros e Tanatos scandiscono ogni nostro istante, come afferma Freud, e come ben sa ciascuno di noi.
Roth indugia sulle malattie: il protagonista è reduce da molti malanni ed operazioni e, nei suoi ultimi anni, sviluppa una vera e propria invidia verso il fratello maggiore – Howie – che ha sempre goduto di una salute di ferro. La sofferenza, con l’inevitabile corredo d’umiliazioni, stravolge la natura di chi ha a patirne, e lo rende un uomo diverso con cui molte volte è difficile relazionare. Ma le infermità, se di lunga durata, anche gravi e condizionanti, tendono ad essere sminuite da chi le subisce. L’uomo vuole che la sua vita sia piena delle cose migliori e le passioni finiscono col governarla, ritagliandosi la parte del leone. Il nostro eroe è stato sposato tre volte, a parte gli amori di contorno, ma nessuna delle mogli è riuscita a coprire il ruolo desiderabile e desiderato. E le colpe di lui non sono minori, come impariamo a conoscere. Phoebe è la seconda moglie, Merete – la modella – sarà la terza:

“Con Phoebe mentì e mentì e mentì, ma invano. Le disse che era andato a Parigi per troncare la relazione con Merete. Aveva dovuto incontrarla faccia a faccia, per farlo, e Parigi era il posto dove stava lavorando.
- Ma in albergo, mentre troncavi la relazione, non hai dormito di notte con lei nello stesso letto?
- Non abbiamo dormito. Ho pianto per tutta la notte.
- Per quattro notti intere? Quante lacrime per una danese di ventiquattro anni! Credo che neanche Amleto pianse tanto.
- Phoebe, ero andato a dirle che è finita…. Ed è finita.
- Cos’ho fatto di male, - chiese Phoebe, - perché tu abbia voluto umiliarmi così? Perché hai deciso di scassare tutto? È stato così orribile? Dovrei essermi ripresa dallo stupore, ma non ci riesco. Io, che non ho mai dubitato di te, che non ho mai avuto nemmeno l’idea di farti domande, e ora non potrò più credere a una sola delle tue parole. Non potrò mai più fidarmi della tua sincerità. Sì, tu mi hai offeso con la segretaria, ma ho tenuto la bocca chiusa. Non sapevi nemmeno che sapevo, vero? Non è così?
- Non lo sapevo, No.
- Perché ti ho nascosto i miei pensieri… Sfortunatamente non potevo nasconderli a me stessa. E ora tu mi offendi con la danese e mi umili con queste bugie, e ora non nasconderò i miei pensieri e non terrò la bocca chiusa. Incontri una donna matura ed intelligente, una compagna che sa cos’è la reciprocità. Ti sbarazza di Cecilia, ti dà una figlia fenomenale, cambia tutta la tua vita, e tu per lei non sai far altro che scopare la danese. Ogni volta che guardavo l’orologio continuavo a pensare che ora era a Parigi e cosa stavate facendo voi due. È andata avanti così per tutto il weekend. La fiducia è la base di tutto, non è vero? Non è vero?
Bastò che Phoebe pronunciasse il nome di Cecilia per rievocare istantaneamente nella memoria di lui le tirate vendicative inflitte ai suoi genitori dalla sua prima moglie che quindici anni dopo, con suo orrore, mostrava di essere stata non soltanto la Cecilia abbandonata, ma la sua Cassandra: “Mi fa pena, questa santarellina che viene dopo di me… Sinceramente mi fa pena, quella volgare troietta quacchera!” “

E non è poi raro - solo negli States? - che nel non piccolo nugolo di parenti vicini ad un uomo che ha avuto ben tre mogli e tre figli, il gesto più toccante tocchi ad un’estranea:

“L’ultima ad accostarsi alla bara fu l’infermiera privata, Maureen, una combattente, a giudicarla dall’aspetto, cui non erano estranee né la vita né la morte. Quando, con un sorriso, si lasciò scivolare piano piano la terra fra le dita socchiuse e da lì sul coperchio della bara, il suo gesto sembrò come il preludio a un atto carnale. Chiaramente, quello era un uomo che un tempo era stato al centro dei suoi pensieri.
Questa fu la conclusione. Non era stata una cosa di grande importanza. Avevano detto, tutti, ciò che avevano da dire? No, non l’avevano detto, e sì, l’avevano detto, certamente. In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione …. Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa.”

Maureen, rossa sorridente e prosperosa, era stata l’infermiera privata quando operato sedici anni prima a cuore aperto, specializzata nel ridare vigore ai suoi ammalati reduci da gravi malattie e spossati sino al midollo da lunghi e gravi malesseri e divenuta presto sua amante.

Adesso, con l’aumentare degli anni e degli acciacchi, l’uomo sente crescere il peso degli errori compiuti: verso le mogli, con Phoebe in prima linea, e verso i figli maschi, i due avuti da Cecilia, oggi freddi e distanti, nei confronti dei quali non ha mai saputo essere un buon padre.

“Sua madre era morta a ottant’anni, suo padre a novanta. Ad alta voce disse loro: - Ho settantun anni. Il vostro ragazzo ha settantun anni. – Bene, hai vissuto, - rispose sua madre, e suo padre disse: - Voltati indietro ed espia le colpe che puoi espiare, e con quello che ti resta tira avanti meglio che puoi.
Non poteva andare via. La tenerezza che sentiva era incontrollabile. Come il desiderio irresistibile che fossero tutti ancora vivi. E che tutto potesse ricominciare da capo.”

Nella solitudine attuale, solo la figlia Nancy costituisce il baluardo superstite degli affetti familiari, unico rifugio confortevole in una rovina esistenziale che ha travolto ogni cosa.
La storia del nostro protagonista ben sembra rappresentare la storia dell’uomo qualunque di questo inizio di secondo millennio. E la copertina del libro, nera, è di certo una scelta deliberata: la vita di un uomo è un tutto - eppure poca cosa - racchiuso tra due ineludibili parentesi…

Luigi Alviggi

EINAUDI 2007
pp. 125
€ 13,50
traduzione Vincenzo Mantovani

 

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