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Tv passione nefasta: i ragazzi dell’era reality vengono da un altro pianeta di Stefania Petrucci

televisore.jpgSono decisamente degli alieni per chi abbia appena qualche anno più di loro i ragazzi nati e cresciuti nell’era del Grande Fratello, allevati a dosi massive di Amici, svezzati con esibizioni di veline anziché con omogeneizzati, scolarizzati con l’italiano degli sms. Ecco Pamela, modello di una tredicenne con telefonino incorporato e innamorata del trash. Che vuole un futuro in cui guadagnerà tanto ma non è disposta a fare il minimo sforzo per meritarselo. Chissà come sarà il mondo in cui vivranno da grandi


Pamela, mia vicina di casa: 13 anni appena compiuti, unica passione: la televisione. Da qui, com’è facile immaginare, ha sviluppato interessi legati esclusivamente ai protagonisti dei reality, di una certa fiction, di taluni programmi trash per definizione. Mi viene a trovare tutti i giorni incollata al suo telefonino di ultima generazione, rigorosamente fucsia.
Le sue dita si muovono sulla tastiera a una velocità stupefacente: un messaggio dietro l’altro, uno squillo dopo l’altro. Non resisto e indago: da chi riceve tutti quegli sms? Ragazzi, naturalmente. Maschi. E ci tiene a sottolineare la differenza di genere per farmi capire che riscuote un certo successo fra i suoi coetanei.
La lascio alla sua occupazione preferita, oltre che alla tv che lei stessa si è affrettata ad accendere appena arrivata, e torno a concentrarmi sul libro che ho tra le mani. Con scarsi risultati, però: lei mi interrompe in continuazione sparando a raffica domande sul senso della vita. Tipo: secondo te, Totti è più bello di Toni? Ma perché stai sempre a leggere? Hai visto chi hanno buttato fuori dal Grande Fratello, giovedì? Sai che domani vado a comprarmi un paio di ballerine? Lo sai che mia zia mi ha fatto una mega-ricarica per il cellulare? Stasera vado a mangiare una pizza con Melissa, Ilaria, Marco, Simone e Alessio; meglio la gonna o i pantaloni? Ma le ballerine me le compro nere o rosse?
La guardo per fulminarla, ma poi la vedo per quello che è: semplicemente un’adolescente. All’improvviso mi accorgo di quanto sia negativa la connotazione che in quel momento attribuisco al termine usato per giustificare quella ragazzina logorroica. Faccio appello a tutta la mia pazienza, chiudo il libro, spengo la televisione e le dico “parliamo un po’, ti va?”.
Fa spallucce, agitando la testa piena di riccioli scuri, mi fissa con lo sguardo già annoiato e si prepara a sentire la predica che, in realtà, non voglio farle.
Vorrei farmi raccontare i suoi sogni, i suoi progetti, il suo quotidiano, gli amici, la scuola. A giugno avrà gli esami di terza media, le chiedo se è in ansia, se sta studiando, se ha già scelto la scuola superiore. Mi dice che vuole fare ragioneria, io le ricordo che non è un genio in matematica ma lei mi informa che in quella scuola ne avrà solo per quattro ore a settimana. Le chiedo come mai questa scelta. “Parliamoci chiaro”, mi dice con l’aria di donna matura, “io che ne so che cosa vorrò fare tra cinque anni?! Se non mi andrà di iscrivermi all’università almeno avrò un diploma vero, saprò fare quattro conti e magari riuscirò pure a trovare un buon impiego. Che poi, il tentativo lo faccio per un anno e se trovo lavoro devono pagarmi bene, almeno duemila euro al mese, altrimenti li mando a quel paese e vado all’università, faccio giurisprudenza. Mia nonna dice che sarei un buon avvocato visto che sto sempre a discutere con tutti. In fondo potrebbe funzionare. Tu lo sai quanto guadagna un avvocato?”
La guardo sempre più imbarazzata, non mi dà neppure il tempo di risponderle e riprende: “perché, forse tu non lo hai capito, ma quello che conta sono i soldi”. Non riesco a dire nulla, penso solo che se fosse figlia mia la chiuderei nella sua stanza fino a 20 anni e butterei la chiave.
Respiro lentamente, cerco di controllarmi per evitare di assumere le sembianze di un drago sputafuoco. Ci riesco, sorrido persino, e provo a spiegarle che nella vita i soldi non sono tutto, cerco di farle capire quanto sia importante la scuola, che non deve stare sempre con quel cellulare in mano anche durante le lezioni, che è necessario che lei si impegni per diventare una donna in gamba; le elenco i principi a cui ispirare il suo cammino, le spiego che solo le cose importanti rendono davvero felici. Insomma, le faccio precisamente la predica che mi ero ripromessa di non farle.
La teen-ager seduta sul mio divano non si scompone, risponde punto per punto alle mie argomentazioni con una logica a suo modo tanto stringente che non mi riesce più di continuare.
Il silenzio sceso fra di noi è interrotto dallo squillo del suo telefonino: è Eros, acneico quattordicenne esperto downloader del web. Vuole sapere se ha la colonna sonora del film “Ho voglia di te”. La sento dire che ce l’ha, che ha visto il film tre volte, che Scamarcio è da paura. Fine della telefonata (Eros, forse, sperava di sentirsi dire che lui è più bello dell’attore amato da Pamela, ma l’improvvisata cinefila è impietosa e il giovane viene liquidato senza complimenti).
Torna allora a parlare con me, non prima di essersi mostrata seccata dalla telefonata dell’amico: scena teatrale con sbuffi tipo locomotiva a vapore e occhi sapientemente roteati in aria.
“A scanso di equivoci”, dice riprendendo uno dei tanti discorsi fatti qualche minuto prima “ti avviso che se un insegnante prova a confiscarmi il cellulare lo denuncio. Perché lo sai anche tu che non è giusto, posso avere un’emergenza e poi, scusa, è mio, potrò farci quello che voglio, no?! Ma che ne sa il Ministro delle mie esigenze?”
Vorrei dirle che per qualunque necessità in segreteria c’è il telefono, può chiamare da lì; vorrei farle capire che le lezioni sono importanti, vanno seguite con attenzione, che è un problema di rispetto verso i docenti, che generazioni intere di studenti hanno frequentato la scuola senza il cellulare, senza l’i-Pod. Non ce la faccio, mi ha sfinita: rinuncio. Ho paura che mi dirà che, con i miei 35 anni, sono di un’altra epoca, che non posso capire, che sono una lagna. Sprofondo nel divano, mi faccio sempre più piccola.
Squilla ancora il telefonino, controlla, è di nuovo Eros. Di nuovo sbuffi a non finire. Stavolta, non risponde: si fa desiderare. Quando la suoneria smette di cantare una canzone che non ho mai sentito, Pamela scruta l’orologio: mi aspetto che mi dica “vado a studiare, a fare i compiti”. No, deve andare perché in tv danno il suo telefilm preferito e vuole goderselo in pace. Sempre che non sia già rientrato il suo pestifero fratellino dall’asilo. Questa idea sembra disturbarla moltissimo e così si congeda sempre più di cattivo umore. Prima, però, mi dà un consiglio. Gratis, come dice lei:
“… ma esci ogni tanto invece di stare sempre incollata a ‘sti libri!”. Sbatte la porta e se ne va lasciandomi letteralmente basita.
Guardo il libro messo da parte per quella conversazione istruttiva, penso alla storia che sto leggendo: i protagonisti hanno l’età di Pamela ma vivono in un mondo – e in un tempo – senza televisione, senza internet, senza cellulari, senza nessuna delle cose che per lei sono ragione di vita. Troppo scontato il raffronto, lo capisco, perciò cerco di convincermi che, in fondo, l’adolescenza è un purgatorio che accomuna tutti – ragazzi e genitori – a queste latitudini. Malgrado tutto, però, faccio fatica a ritrovare me stessa adolescente nella ragazzina che poco fa mi ha tolto la parola con la sua sicumera da donna fatta e finita.
Allora rimango in silenzio ad ascoltare un’eco dei miei ricordi di tredicenne e la domanda che ricorre più di frequente è: come ho fatto, quando avevo l’età di Pamela, a vivere senza cellulare?


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