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Progetto Aversa Diversa
 

Attualità
Crollato il progetto del Ponte, lunga vita alla SPA che doveva farlo. Complimenti Di Pietro! Gino Nobili

pontecrollato.jpgInsieme alla reintroduzione del reato di falso in bilancio, lo stop allo sciagurato progetto del ponte sullo Stretto di Messina è una delle pochissime promesse mantenute del governo Prodi. A valle della quale sembrava abbastanza ovvio chiudere anche il buco nero di soldi pubblici che è la SpA appositamente a suo tempo creata. Ebbene, con il decisivo voto contrario di Udeur e Italia dei Valori, la chiusura della società Stretto di Messina non è passata in Parlamento. Va bene che il governo è agli sgoccioli, e chiedergli coerenza non è forse più neanche il caso, ma Mastella e Di Pietro non erano l’un contro l’altro armati? E cosa ci fa il giudice di Mani Pulite nello stesso carrozzone con gli Amici degli Amici? E soprattutto, che diavolo è questa società, a cosa è mai servita e serve, e come si può fare per evitare che i soldi spesi per lei e da lei non siano defluiti dalle nostre tasche del tutto invano?
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Trenitalia è tra le aziende ex pubbliche quella in cui si nota di più la distanza tra aggressività del marketing nell’ostentazione di efficienza e reale percezione degli utenti. In altre parole, a tutti coloro che hanno di recente effettivamente preso un treno, specie per il sud, suona particolarmente irritante ogni spot di persone felici su treni apparentemente perfetti. Eppure, tra i dati ostentati dalle ex Ferrovie dello Stato ce n’è almeno uno che corrisponde al vero: i tempi di percorrenza di un treno dalla stazione ferroviaria di Villa San Giovanni a quella di Messina Centrale, smontaggio, carico sulla nave e rimontaggio compresi, vanno da un minimo di 40 minuti ad un massimo di 1 ora e mezza, e nella stragrande maggioranza dei casi oscillano attorno all’ora o poco più. Tralasciando le altre modalità di attraversamento (ma c’è questo e altro in quest’articolo di un paio d’anni fa…), stupisce come sia mai potuto venire in mente a persone razionali che valeva la pena di spendere decine di migliaia di miliardi di lire per ridurre di mezz’ora un tragitto Roma/Palermo che con una spesa molto minore in altri tronconi (i disastrati tratti ferroviari da Salerno in giù e da Messina a Palermo) si sarebbe ridotto di molto di più.
Eppure, se ripercorriamo la storia, senza arrivare a Napoleone o agli antichi romani, troviamo frotte di personaggi a coccolare l’idea di un’infrastruttura faraonica a riunire la Trinacria al continente. Bastano le prospettive di guadagno a giustificare tanto affanno? Si, se sono enormi, e spesso anche sganciate dall’effettiva realizzazione dell’opera.
Come ti stringo lo Stretto
Quando la costruzione di un collegamento stabile tra Sicilia e Calabria è potuta passare, per via del progresso tecnologico, dallo status di assoluta utopia a quello di progetto (forse) realizzabile, si sono scatenati i cani da tartufo del business. Negli anni 70 un concorso di idee vide, come spesso accade in questi casi, anche proposte bizzarre, come un megaponte galleggiante su zattere girevoli, o la creazione di un istmo artificiale (giuro che è vero), ma le idee praticabili su cui si svolse lo scontro rimasero due, legate ai due carrozzoni pubblici che le sostenevano: l’Iri il ponte sospeso e l’Eni il ponte sommerso. Torneremo su questo punto.
Nel 1971 una Legge dello Stato autorizzò la creazione di una società, di diritto privato a capitale pubblico, concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione di un collegamento stabile viario e ferroviario. L’iter si concluse nel 1981 con la costituzione della Stretto di Messina S.p.A., in cui erano presenti con quote del 12,25% Ferrovie dello Stato, ANAS, Regione Sicilia e Regione Calabria, ma il cui 51% era in mano a ITALSTAT e IRI: quale dei due progetti avrebbe vinto? Intanto si stabilì una correlazione tra livello di sponsorship dell’opera e egocentrismo del politico che la promuoveva, e infatti i nomi dei sostenitori più accaniti vanno da Cossiga negli anni 70 al “mitico” Signorile negli 80, a Craxi, sotto il cui “regno” la Stretto di Messina firmò una convenzione con FS e ANAS, fino ovviamente a Berlusconi, che si è letteralmente inventata la figura di General Contractor per l’assegnazione dell’appalto. Torneremo anche su questo punto.
Gli scempi del paladino della legge
Nel 1986 uno Studio di fattibilità tra le tipologie possibili (tunnel sotterraneo, tunnel in mare, ponte) decise per il ponte sospeso. Anche le FS furono d’accordo. Presidente dell’IRI era Romano Prodi, che definì l’opera “una priorità”. A capo della Stretto di Messina c’era l’onorevole Andò, socialista e in odore di mafia, condannato per tangenti nel polo fieristico catanese fino al secondo grado con sentenza poi annullata in Cassazione. Nel 1990 il primo ministro Andreotti (processato per associazione mafiosa e assolto in Cassazione ma solo per non sufficienti elementi di prova dal 1981 in poi mentre per prima la sentenza è di prescrizione, di un reato che la motivazione dà per acclarato) lo sostituisce con Antonio Calarco, direttore della Gazzetta del Sud, che resterà in sella fino al 2002, quando Berlusconi lo sostituirà con Pietro Ciucci, in palese conflitto d’interessi in quanto a capo dell’Anas.
Sotto Calarco nel 1992 viene presentato il progetto di massima definitivo, con relazioni tecniche, previsioni di spesa, tempi, e valutazione d’impatto ambientale: tutto palesemente alla buona, al solo scopo di mandare avanti le cose, e tutto a carissimo prezzo. Caduto troppo presto il primo governo del Biscione, il progetto faraonico trova il suo nuovo sponsor nell’ennesimo uomo di destra forzato a stare a sinistra dall’anomalia-Berlusconi: il ministro per i lavori pubblici Antonio Di Pietro.
Così, il progetto, col parere favorevole di ANAS e FS, viene approvato nel 1997 dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. E’ appena il caso di ricordare che Di Pietro nel suo breve primo passaggio al governo è stato anche responsabile di un altro grande scempio: la decisione, al solo scopo di consentire all’Anas di continuare a chiamarla autostrada e quindi imporre il pedaggio, di rifare il tracciato della A3 esattamente dove era, con soli 40 chilometri di terza corsia vicino Salerno e invece solo la corsia d’emergenza in più nei restanti 400. Anche di questo abbiamo già parlato, qui ricordiamo soltanto che c’erano due decisioni di buon senso a disposizione: declassare l’autostrada a superstrada e spendere un po’ di soldi per aggiustarla dove serviva, o spendere molti soldi per rifarla a valle lasciando l’esistente alla viabilità locale. Invece si è scelto di spendere molti soldi per rifarla dov’era, larga quant’era la vecchia, quindi senza nessun beneficio in termini di flusso a lavori ultimati, e con enormi problemi pratici per via dei cantieri per tutta la durata dei lavori, che peraltro si stimava in pochi anni e invece come prevedibile sarà di molti decenni.
Sorvolando sulla miriade di processi in atto per appalti e subappalti a imprese mafiose, è abbastanza per farsi un’idea dell’assoluta incompetenza – volendo essere buoni – dell’ex magistrato di mani pulite in materia di lavori pubblici. Infatti adesso è ministro delle infrastrutture. E anche su questo dovremo tornare.
Ma quanto mi costi?
La vicenda appena tratteggiata ha un aspetto economico spaventoso: nessuno sarà mai probabilmente in grado di calcolare anche solo per approssimazione quanto sarà costata alla collettività la Società Stretto di Messina dalla fondazione alla auspicabile chiusura. Per avere una vaga idea, riportiamo i dati riferiti al Parlamento dal Senatore Paolo Brutti nel chiederne l’immediata chiusura a seguito della rinuncia alla costruzione del ponte:
spese di propaganda: da 11mila euro nell’ultimo anno della gestione Calarco (2002) a 1.480.000 euro nel 2004, secondo anno a guida Ciucci;
emolumenti e gettoni di presenza amministratori: da 526.000 euro del 2002 a 1.626.000 euro del 2006 di cui 700mila al solo Ciucci;
spese per il personale: da 1.453.000 euro nel 2002 per 36 unità ad oltre sei milioni di euro nel 2006 per 102 dipendenti – ma il dato riguarda le sole retribuzioni, complessivamente i costi del personale sono passati da 2 milioni di euro nel 2002 a quasi 10 nel 2006.
In pratica, la Stretto di Messina oggi costa 34 milioni di euro l’anno, e visto che il Ponte non si fa più non serve a niente. Ma il Senato ha bocciato l’emendamento che ne proponeva lo scioglimento perché l’Italia dei Valori ha votato con la Cdl.
Ancora maggiori perplessità suscitano le motivazioni di questa decisione riferite dal ministro delle infrastrutture. Di Pietro infatti si richiama alla penale di 500 milioni di euro che potrebbero reclamare le società private impegnate per i contratti sul ponte. Ma queste ragioni, al di là dell’effettiva quantificazione della penale e della sua eventuale effettiva applicazione, che dovrebbe avvenire a seguito di tutti i gradi di un processo civile (il quale processo non potrebbe non tener conto di alcune anomalie nello svolgimento della gara – di nuovo torna in ballo il “general contractor”), attengono semmai alla decisione di costruire o non costruire il Ponte, che è già presa, e non certo a quella di chiudere o meno la società delle Stretto di Messina, fatto semplicemente consequenziale alla decisione di non fare il ponte e finalizzato solo ad evitare ulteriore spreco di soldi pubblici (oltre a quelli della penale che forse saremo condannati a pagare).
Le bizzarre alternative
Quando passiamo alle alternative, poi, Di Pietro da illogico diventa addirittura bizzarro: anziché sciogliere la “Stretto di Messina” l’ineffabile ministro propone di incorporarla nell’Anas! Ma il fatto che le due società siano giàoggi guidate dallo stesso presidente Ciucci, se in teoria può sembrare un argomento a favore della confluenza, in pratica consiste nel rafforzamento della posizione di potere del soggetto principalmente responsabile della suaccennata trasformazione della SpA del ponte da semplice fonte di spreco di denaro pubblico a vero e proprio buco nero delle nostre risorse finanziarie. Ora, che un sedicente “paladino del diritto” si trovi a tirare la carretta per i grand commis della finanza pubblica è già strano di suo; che poi le battaglie da lui propugnate – si chiamino A3 o Ponte sullo Stretto – finiscano per consegnare ingenti guadagni nelle tasche della criminalità organizzata può essere valutato come incidentale; ma che per combatterle il sediceente paladino finisca per trovarsi come compagni di trincea i suoi stessi avversari politici sia fuori che dentro la maggioranza di governo (al voto del Senato non si è visto Clemente Mastella) induce davvero a pensar male.
Specie perché la proposta della Commissione Bilancio non era di pura e semplice cancellazione della “Stretto di Messina”, ma della sua trasformazione (senza quindi né perdere il personale né almeno in parte vanificare quanto speso dalla collettività fino ad oggi) in una nuova Agenzia per le infrastrutture di Calabria e Sicilia. E questa sarà l’ultima cosa su cui tornare.
Per tornare, ma non per arrivare
Raccogliendo i fili rimasti aperti, restano quattro punti sui quali concludere.
1) Il ponte non era il progetto migliore. La scelta dell’Eni, perdente storicamente, era preferibile da tutti i punti di vista. Il progetto dell’ing. Massaro si chiamava Ponte di Archimede, dal nome del principio cui si ispirava, e consisteva in un tunnel sommerso a poche decine di metri di profondità, a sagoma lenticolare idrodinamica. Una sorta di tubo ellittico, che non avrebbe poggiato su nessun megapilastro ma sarebbe rimasto ancorato elasticamente al fondale, tenuto su dal suo stesso peso (un corpo immerso in un liquido…). Non aveva nessuna delle controindicazioni del ponte sospeso:
era ingegneristicamente molto meno “ardito” (il ponte a unica campata di 3 chilometri e passa sarebbe stato 3 volte più lungo del più lungo mai costruito);
non avrebbe risentito della telluricità della zona (il ponte, se il progetto di massima avesse contenuto seri criteri antisismici, sarebbe stato economicamente irrealizzabile e avrebbe mandato l’asta deserta);
non avrebbe risentito delle correnti marine (il ponte sarebbe rimasto impraticabile in tutti i giorni di vento) sia per via della sua forma sia perché era possibile collocarlo in un tratto di mare più tranquillo che non l’imbocco dello Stretto: era previsto infatti tra due località molto più vicine a Reggio e Messina distanti tra loro 8 chilometri;
avrebbe perciò realizzato una reale inurbazione tra le due città (che invece il ponte avrebbe tagliato fuori);
la minore distanza da quota zero (il ponte doveva essere alto più di 100 metri) avrebbe richiesto modifiche nella viabilità di accesso, stradale e ferroviaria, assai meno rilevanti (un treno per salire di 100 metri deve partire decine di chilometri prima, se il dislivello si riduce a 30 anche le rampe si riducono a un terzo);
era molto meno costoso del ponte, e con un impatto ambientale infinitamente meno rilevante (sia visivo che reale, si pensi solo alle colline artificiali alla base dei piloni di 400 metri).
Tutto ciò non per entrare nel merito di una questione chiusa da tempo, ma per affermare che dire “no” al ponte non significa necessariamente essere retrogradi, visto che un’altra proposta altrettanto avveniristica poteva tranquillamente raggiungere il consenso anche degli ambientalisti. E, inoltre, per evidenziare che forse la scelta del ponte sospeso è stata motivata soprattutto da fattori appetibili dai politici di tutti i fronti, come la sua visibilità faraonica, i suoi costi esorbitanti, e perché no anche lo sganciamento tra la sua utilità economica “mediata” (leggi, margine per creare tangenti a tutti i livelli) e la sua effettiva realizzazione (di cui così poteva anche non fregare niente a nessuno). Mentre se lo scopo fosse stato davvero creare un utile collegamento fisso della Sicilia al continente ci sarebbero state soluzioni migliori.
E’ lo stesso rapporto che c’è a Roma tra l’assurda linea C della Metro tra piazzale Clodio e la Casilina passando sotto il Colosseo, che costa tantissimo e serve zone già abbastanza collegate, e un razionale utilizzo dell’immenso e paralizzante demanio ferroviario tutto intorno alle mura aureliane per creare strade e metropolitane di superficie, che a una cifra molto inferiore darebbe benefici enormemente maggiori alla collettività (ma molto meno “margine” ai “manovratori”).
2) Il problema è il General Contractor. Quando si parla, a vanvera, di possibili penali per la chiusura della Stretto di Messina, si dimentica che se mai lo Stato dovesse versare una penale sarebbe invece per la mancata realizzazione dell’opera, e dovrebbe farlo nelle tasche di una figura che esiste al mondo soltanto nell’ordinamento italiano, creata appositamente da Berlusconi al duplice scopo di affrettare i tempi di un’asta che doveva concludersi prima di perdere le elezioni, e creare un “livello di irresponsabilità” per facilitare gli “impicci”. Il Contractor, infatti, è assurdamente non responsabile dei tempi di effettuazione dei lavori, mentre lo sono le società a cui lui poi affida l’effettiva realizzazione degli stessi. Quindi, la figura è servita soltanto a creare soggetti abbastanza grandi per poter competere all’enorme gara, che altrimenti rischiava di andare deserta (molti veri costruttori si sono ritirati per dichiarata impossibilità dell’opera).
Nel caso improbabile (nulla è andato in esecuzione, quindi dove sarebbe il danno per Impregilo?) di condanna per lo Stato, a pagare dovrebbero essere chiamati quei suoi rappresentanti che così frettolosamente avevano disegnato la gara, per poter dire di aver avviato l’opera senza averlo fatto, lasciare la patata bollente ai successori, e intanto firmare una cambiale per gli amici degli amici (la penale stessa, da corrispondere in cambio di nulla: tutti soldi puliti!).
3) La Salerno – Reggio Calabria è un imbuto. Il responsabile del mantenimento in vita della Stretto di Messina è lo stesso dell’assurda ristrutturazione del tratto meridionale dell’autostrada del sole: sarà un caso? Facciamo un esercizio di stile: se per assurdo Di Pietro ottenesse che il Ponte venisse costruito (e per evitare di pagare qualche centinaio di milioni di penale ne spendessimo così qualche decina di migliaia), il maggior traffico che attirerebbe (come sa qualunque studente del primo anno di Scienze politiche impegnato nell’esame di Geografia politica ed economica) dovrebbe passare per un tracciato che, per decisione della stessa persona, è stato rifatto largo uguale a com’era negli anni sessanta (sono state realizzate due nuove corsie al posto di due vecchie corsie, ma sarebbe costato solo poco di più fare tre nuove corsie al posto delle due vecchie, e addirittura qualcosa di meno fare due corsie nuove più a valle, avendo però alla fine ben quattro corsie, due nuove e due vecchie, e nel frattempo nessun disagio agli utenti). Complimenti!
4) Nessuno sa bene che fine hanno fatto i soldi del Ponte. Per affermazione sia del Ministro Bianchi che del Presidente Prodi, e per decisione del Consiglio dei ministri, i fondi già stanziati per la costruzione del Ponte devono essere utilizzati per altri interventi in Calabria e Sicilia. Questa cosa in parte sta avvenendo: ogni tanto leggiamo sui giornali specie locali che tale intervento viene effettuato coi fondi ex-Ponte. Ma, senza voler entrare nel merito di interventi magari anche troppo lontani dalle zone in questione (ad esempio, per la statale jonica nei pressi di Roseto Capo Spulico, lontana 300 chilometri, che andava sì rifatta ma magari con altri soldi), non era forse il caso di organizzare una struttura informativa organica che rendesse conto dettagliato del complesso degli interventi effettuati coi soldi del Ponte? E non era forse proprio la SpA Stretto di Messina, opportunamente rivista nella ragione sociale, il soggetto migliore a doversene occupare, magari insieme con la creazione di una Città Metropolitana dello Stretto, auspicabile da ogni punto di vista, e realizzabile anche (e anzi meglio) senza collegamenti stabili di alcun tipo?
Troppi questioni poco chiare in questa storia. Ma sarà difficile che questo ministro e questo governo si decidano a chiarirle.


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