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Giovedì sera, meglio andare fuori Raffaele Turco

deserto.jpgHo sempre seguito con interesse le trasmissioni del giovedì sera: alle 21:00 inizia il foro di Santoro dove in genere con testimonianze spesso palpitanti e senza apparente censura si cerca di dipingere il quadro dell’Italia moderna, immagine sinistra e corrusca, come l’ultima grana di brace aizzata dal vento; alle 23:00 invece si passa alle Iene che in fondo fanno lo stesso ma con uno stile che, bisogna riconoscere, è proprio loro. Non voglio tediarvi con la sintesi di quanto è accaduto, ma desidererei soffermarmi su due punti chiave emersi dal dibattito e dalle interviste, che esprimono lo stato di agonia del nostro paese.
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Ospite di una recente trasmissione di Santoro era un noto magistrato autore del libro “Toghe rotte” il quale, dati alla mano, ha dimostrato come a causa della mancanza cronica e colpevole di finanziamenti alla magistratura, di fatto il lavoro delle procure e dei reparti amministrativi delle forze dell’ordine si sia ridotto a quello di semplici produttori di “carta straccia” destinata ad imputridire negli archivi (qualora ci siano) a tempo indeterminato, nell’attesa o nell’eventualità che i processi vengano celebrati. Allo stato attuale la magistratura sembra essere del tutto privata dei suoi poteri giurisdizionali per due ragioni fondamentali: in primo luogo per la legge della passata legislatura che ha dimezzato i tempi di prescrizione di un gran numero di reati penali nella consapevolezza diremo ancora “colpevole” dei ritardi, in secondo luogo grazie all’indulto che non solo ha sciolto i legacci dei detenuti, ma ha preservato i polsi di coloro che vengono condannati ad una pena inferiore ai sei anni in quanto i primi tre sono condonati, i rimanenti scontabili al di fuori del carcere. Tale realtà, che è stata dunque spiattellata in TV in faccia a tanti italiani, sarebbe stata abbastanza per scuotere le nostre coscienze, ma il palinsesto ha voluto esagerare. Poiché la magistratura opera sulla base delle leggi dello stato a qualcuno in studio è balenato il dubbio che forse il Parlamento che detiene il potere legislativo potesse avere in merito qualche responsabilità. Sappiamo tutti che le grandi maggioranze in Italia sono un’utopia in quanto sembra che il nostro sistema politico ami prolificare un gran numero di partiti compromettendo fortemente i lavori parlamentari ma, come se questo dato non fosse di per sé allarmante, il ministro Di Pietro presente in studio ha confermato, in un discorso peraltro assai accorato, il dubbio divenuto certezza che il parlamento dominato dalle logiche di potere e dalle baronie di partito non solo è in affanno, ma è divenuto un organo in cancrena. Personalmente alla fine della trasmissione ero moralmente affranto: se i poteri dello stato tradizionalmente sono tre e due di essi è chiaro che non funzionano, l’immagine dell’equilibrio politico istituzionale del nostro paese è evidentemente in condizioni di inammissibile precarietà. Finora dunque non ho fatto altro che ripetere cose già dette, ma tale articolo non vuole essere un vacuo lamento. “Muore lentamente, chi passa i giorni lamentandosi della cattiva sorte o della pioggia incessante” recita Neruda in una famosissima poesia, non possiamo fermarci alla banale constatazione dei fatti, c’è bisogno di una nuova fase nella vita del nostro paese che sia propositiva, innovativa, che abbia il coraggio di mettere in discussione ogni realtà costituita: l’organo in cancrena va amputato, altrimenti conduce alla morte di tutto l’organismo. Sembra evidente che la democrazia nel nostro paese non funzioni poiché essa richiede un alto grado di consapevolezza critica e civile che non appartiene alla mediocrità dei nostri animi vili incapaci persino di far valere i propri diritti di cittadinanza. Il puzzo fetido delle nostre strade è nulla in confronto all’olezzo della nostra indifferenza, del nostro “far parte per noi stessi”, che è evidente in ogni grado della vita sociale, dalle manifestazioni studentesche che hanno perso ogni valore sociale, che al di là del colore politico rappresentavano una scuola di democrazia e di libertà, sino alle associazioni più complesse come i sindacati, le assemblee parlamentari viziate da una dilagante corruzione morale. Ricordiamoci che l’art. 1 della Costituzione “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” è costato una guerra ed una costituente. Non voglio rievocare gli atti eroici della resistenza laddove si moriva in nome del tricolore ma vorrei farvi riflettere sul fatto che la democraticità di un sistema non è un assetto definitivo, ma è frutto delle necessità di una determinata contingenza storica, per cui la democrazia va difesa ieri come oggi strenuamente. La democrazia ha bisogno del nostro tempo, della nostra voce, delle nostre iniziative, per cui se riteniamo di avere impegni maggiori, allora consideriamo anche il rischio di perderla. E pensare che giovedì sarei voluto uscire!


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