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Napoli: ricette e ricordi Luigi Alviggi

Ricette.jpgPaola Ghia, letterata napoletana, con questo lavoro (Neos Edizioni 2007, pp. 54 € 12,00) assolve…
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un duplice scopo: da un lato fornire ricette nella più pura tradizione napoletana – alle quali non lesina un qualche tocco di elaborazione personale – dall’altro rivolgere uno sguardo affettuoso alla storia della sua famiglia, ravvivata da numerose foto d’epoca. Tutto nasce da un quaderno di ricette tramandato di madre in figlia, in occasione del matrimonio di quest’ultima, e come tale religiosamente recepito dall’apprendista. Fuorilegge nel libro è il pretenzioso “q.b.” comune a tanti ricettari, di piccolo e grande valore. Il “quanto basta” spesso basta davvero a mettere in crisi cuoche/i anche non di primo pelo. E diciamo, a questo punto, che altrettanto spesso nelle ricette divulgate – in specie sui giornali – non vengono indicate le giuste quantità dei vari ingredienti. Il tocco dei grandi artisti si avvale pedestremente del più grossolano depistaggio per non divulgare segreti ben custoditi che, nella maggior parte dei casi, fanno la differenza tra il casalingo ed il grande chef. Nulla di tutto questo ci travaglia in questa raccolta, con la solida tradizione e la schiettezza a farla da padroni.
È d’uopo adesso fornire un assaggio del tutto con una delle ricette più difficili:
“ Il BABA’
Ingredienti:
4 uova
240 gr di farina
85 gr di burro
50 gr di lievito di birra (essiccato)
una presina di sale
1 cucchiaio di zucchero
Esecuzione
Battere a neve le chiare. In una terrina lavorare il burro con lo zucchero. Aggiungere uno alla volta i rossi d’uovo, la farina ed il lievito con un cucchiaino di zucchero. Lavorare la pasta per 1/2 ora. Inserire le chiare “tagliando” il composto con un cucchiaio di legno. Coprire la terrina con una sciarpa di lana e lasciare lievitare per due ore.
Versare con delicatezza il composto nello stampo da forno imburrato, coprire con il panno di lana e lasciare lievitare per altre due ore. I passaggi dalla terrina allo stampo e dallo stampo al forno devono essere lenti. E meglio non spostare troppo il babà, ponendo la terrina vicino allo stampo e quest’ultimo non lontano dal forno.
Infornare nel forno caldo (200 gradi) per 40 minuti.
BAGNO
Ingredienti:
½ kg di zucchero
1 litro d’acqua
buccia di un limone
1 bicchierino di rum
Esecuzione
Portare gli ingredienti ad ebollizione. Far bollire per cinque minuti a fuoco lento.
Versare il liquido sul babà appena sfornato e lasciare riposare per una notte a temperatura ambiente.
Il giorno dopo, rovesciare il dolce nel piatto di portata (che deve essere fondo al centro, per contenere il liquido non assorbito).
Mettere il babà nel ripiano inferiore del frigorifero e, nel corso della giornata, raccogliere il liquido dal fondo del piatto e bagnare il dolce, sino a completo assorbimento dello stesso.”
L’essiccato vuol dire lievito liofilizzato, che l’Autrice precisa preferibile in altro punto della pubblicazione.
Ritengo che converrete che la ricchezza di particolari non è male. La procedura non è semplice, ma questo ve lo avevo anticipato, e la stessa cuoca ci mette in guardia:
La lavorazione di questo simbolo dell’arte culinaria partenopea richiede tutta la vostra pazienza, perché in effetti siamo di fronte alla vita. Il babà è come la vita di un uomo ed il suo segreto è nella lievitazione: come un bambino teme i minimi sbalzi di temperatura, come di mano o di umore. Mai spostarlo dal recipiente dell’impasto a quello da forno senza gradualità, con scossoni o nervosismo. Potrebbe, come un bimbo, subire dei traumi indelebili nella crescita e, quindi, perdere la propria natura vera e trasformarsi, appunto, in ciambellone.”
Spontaneità e freschezza caratterizzano le ricette ma ancor più i ricordi della più giovane della famiglia, unica femmina di quattro figli, alle prese con malanni infantili, fatiche scolastiche ed universitarie, primi amori, primi contatti con le aspiranti cognate, l’incontro importante con il futuro marito. Troviamo anche ricette desuete, come la quasi scomparsa cotognata legata alla difficoltà di scovare oggi mele cotogne. Scopriamo la spiegazione del termine “pippeeiare” – quanti giovani lo conoscono? – cioè “sobbollire a fuoco lentissimo per tutto il tempo che occorre”, legato al celeberrimo ragù. Ancora, abitudini gastronomiche del tutto anacronistiche, per non usare termini peggiori: chi oggi terrebbe il grano della pastiera a macerare 40 giorni nel latte? chi sa che di questo classico, ed universalmente noto, dolce partenopeo esistono due versioni: la liscia e la ruvida? E più praticamente e modernamente: chi oggi prepara da sé la pastiera?
I ricordi della Napoli di un tempo non potevano mancare, navigando nella tradizione:
Un budello stretto e ripido da Cariati a Corso Vittorio Emanuele, a Via Roma (o Toledo), insidioso nella discesa e molto faticoso in salita.
Lo fiancheggiano, allineati in maniera perfetta, palazzi rugosi per vecchiaia, alcuni per antichità. Sulla strada si affacciano i bassi, i tipici maleodoranti vani unici, dove si annidano e vivono intere famiglie: di giorno esplodono sulla strada dove le donne sfaccendano, conversano, litigano, contrattano, insomma vivono e si esprimono nel loro colorito dialetto: le ore della giornata sono scandite da rituali che si ripetono; dalle dodici in poi echeggiano i nomi dei figli che le madri chiamano a raccolta per il modesto pasto: Gennarino, Peppiniello, Concettina, Carmela e le risposte non si fanno attendere “sto cà”, “mò vengo”. Nel pomeriggio la strada è piuttosto silenziosa ma si anima al tramonto, gli uomini ritornano dal lavoro, i bambini stanchi dei loro giuochi rincasano e le donne si danno da fare per preparare il pasto serale; sono frequenti i prestiti ed è un via vai di bimbi e di donne da un basso all’altro; manca una cipolla, uno spicchio d’aglio, un po’ di vino e il vicolo si riempie di odori e di vapori: allora si alza stentorea la voce di Don Pasquale che ogni sera frigge per la strada i “calzoni” che possono essere pagati in settimana e grida: “cazune
a oggi a otto”. Gli affari gli vanno bene.”

Il pizzaiolo richiama alla mente il bravissimo Giacomo Furia, marito ruspante e babbeo della Sophia nazionale, nel grande film “L’oro di Napoli” (1954) di Vittorio De Sica. E tutto il libro è impostato sull’enorme serbatoio della memoria ove attingiamo le pagine più toccanti della nostra esistenza. È, dunque, un’opera “vissuta”, in cui le ricette trascendono la loro contingente natura per attingere i vertici delle delicate e irripetibili sensazioni rimaste scritte nei nostri sensi da giorni lontani . . .


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