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Progetto Aversa Diversa
 

Letteratura | Pittura | Fotografia | Musica | Cinema | Teatro
“Rue du Général Bordàs, 45” di Marco Burattino, Giraldi Editore Luigi Alviggi

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Marco Burattino, giovane partenopeo trapiantato a Milano per lavoro, esordisce brillantemente nel campo narrativo con questo cospicuo romanzo, che si lascia apprezzare per il sottile gioco psicologico descritto nei giovani protagonisti, dibattuti in vicende a pennello per odierni coetanei.

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È il racconto della settimana precedente e dell’incontro di cinque trentenni, amici “francesi” accomunati da un’esperienza di convivenza universitaria da progetto Erasmus dieci anni prima nella città di Bordeaux (il titolo è l’indirizzo della casa ivi in affitto).

Con loro c’era e ci sarà anche la bella Giulia, fulcro del desiderio più o meno celato di tutti, ed uno, proprio in occasione del rendez-vous, ne vincerà la lotteria.

La singolarità dell’evento è dovuta alla partecipazione di tutti, anche di chi nel frattempo non si è fatto più vedere: è, dunque, l’occasione per rielaborare antichi umori alla luce del tempo trascorso, cosa che persino in un giovane può scatenare il panico.

La vicenda è centrata su Edoardo, tassista, single, l’unico ancora studente fuori-corso, voce narrante. Gli altri: Roberto, fascinoso e sportivo, “una Delta HF integrale“; Savio, il saggio, l’organizzatore del ritrovarsi, “una station wagon“; Ludovico il proprietario della villa ospitante, la cui vendita è la spinta al fatto, “un vecchio Maggiolone“; Francesco, già in Francia ospite saltuario, l’amico “oscurato” nella memoria, sposato, sarà l’unico a mancare.

Sfondo ricorrente alla narrazione è il viscerale amore di Edoardo per la musica, che sottolinea, anzi meglio sovrasta, ogni stato d’animo, suo e degli altri, a comprova di una profonda e vissuta conoscenza del settore da parte dell’Autore.

È una moderna boheme. A corredo, feste, partite a Risiko, e non solo, furtarelli, sbornie, sventatezze, spinelli, senza troppo esagerare, scherzi reciproci, perfino la ricetta di una succulenta pasta e patate, il tutto insaporito dall’irripetibile entusiasmo dei vent’anni.

Nelle pagine sedimentano ampi stralci di quella dialettica spinta che caratterizza gli anni più verdi, e ne costituisce gran parte delle argomentazioni, tante volte fini a se stesse, ma anche tanto necessarie per imboccare con determinazione quella strada che rappresenterà la nostra univoca direzione negli anni a venire. Spigliatezza e spontaneità rendono il tutto lieve e appetibile.

Variegata la fauna dei compagni di lavoro di Edoardo.

Vi spiccano Vincenzo, detto Navicella, perché il sedile di guida è stato posizionato al centro dell’auto data anche la grande stazza del guidatore, con cambio e freno a mano tra le gambe; Graziano, l’anziano dispensatore di saggi e spicci precetti di vita; Michele, detto Telemike, con tv nel taxi per vedere a volontà quiz a premi. Insieme affrontano le peripezie di un difficile mestiere.

Nelle difficoltà dell’essere – oggi forse più che mai ardue per un giovane – ecco prorompere veemente una dichiarazione di sfida, pronunciata proprio contro Giulia, la donna-amica oggetto di perenne desiderio, scagliata a voler rimarcare un’irriducibile diversità, almeno a parole se il mondo non permette di raggiungerla nei fatti:

 

 “Io sono di maniera. Appartengo ad una categoria che non parte e non arriva, gira intorno per poi tornare rigorosamente al punto di partenza. E lo fa volontariamente o no, perché conviene, è meno faticoso. Etica, impegno, coscienza, ideale e qualsiasi prodotto intimo abbia un ritorno non immediato giace su uno scaffale troppo alto e pieno di polvere nel supermercato delle personalità. L’unico ideale, se di ideale si può parlare in questo deserto, è il nostro, è individuale, e ci si crede di piú quanto maggiore è il grado di diversità che ci conferisce rispetto al prossimo. E’ la strada piú sicura: nei giorni limpidi e tersi allo speccbio ci sentiamo invincibili e migliori in questa diversità; nelle tempeste piú buie la nostra incapacità è almeno consapevole rispetto alla mediocre assenza di contenuti del resto della gente. Ci crogioliamo nell’essere profeti della nostra irrilevanza e del vuoto che ci circonda, ben certi di non avere il physique du role per cambiare le cose. Il mio lavoro è di maniera, il mio modo di vestire è di maniera, quello che ti sto dicendo è di maniera: tutto me stesso è la proiezione di quello che secondo me questo personaggio, in questo momento di questo film dovrebbe essere.”.

 

Nel mucchio, ricordi della vita da studente, frecciate pesanti alla sconnessa realtà napoletana, nostalgie di amori non sbocciati, scorribande al limite del lecito, notazioni filosofiche:

 

“Come farebbe ad esistere la felicità, senza il passato? La felicità ha la sua giusta dimensione solo se collocata nel passato. Non nel futuro, tanto meno nel presente: solo la percezione dell’importanza di quello che si è perduto ci fa attribuire ad un determinato stato d’animo l’aggettivo “felice”.”

“L’affetto è uno splendido figlio adottivo del tempo che si trascorre insieme a qualcuno: stranamente, niente di più. Un sentimento bello ma quantitativo, un album di fotografie zeppo di luoghi visti insieme, o di foto di gruppo sorridenti.”

La mia città è misteriosa come un luogo invaso dalla nebbia, pur non avendo di queste problematiche atmosferiche: le storture sono sotto gli occhi di tutti, ma è come se una coltre di nebbia ne smussasse gli angoli, rendendole dapprima accettabili, poi dopo poco parte integrante della realtà.

I pubblici ministeri dicono che questa nebbia sia la metafora dello scarso senso civico, gli avvocati difensori parlano di inevitabile sfiducia nel futuro e diffidenza nei confronti del prossimo.

Come tutti gli altri masticati da questa città, io la vedo semplicemente come una nebbia, che c’è, si vede, e produce conseguenze, esattamente come alcune canzoni dei Cure, che sembrano avvolte dalla nebbia. Piazza Nazionale, per esempio.

È da quando sono nato che Piazza Nazionale, una bella piazza nel quartiere di Poggioreale, è ricoperta quasi totalmente da un cantiere, dentro il quale non si è mai capito non solo se e cosa stiano facendo, ma anche se vi sia mai stato un progetto.

Se ne parla in giro, c’è chi risponde un parcheggio, chi un giardino, chi una stazione di qualche linea ferroviario-metropolitana, chi ancora un monumento o altre cazzate del genere.

A parte il peccato di non aver mai visto una piazza che, ripeto, avrebbe tutto per essere bella, dalla forma all’aver mantenuto in essere alcuni suoi luoghi sacri, come il venditore di olive, papaccelle e noci, la cosa che mi chiedo è come sia possibile che in questi ultimi 25 anni a nessuno sia venuto in mente di occuparsi di questa faccenda o cercare di capire cosa cazzo servisse per liberarsi di quel cantiere e tornare ad una parvenza di normalità.

Non ci sono i soldi?

Benissimo, smantellate tutto, ce la mettiamo a posto da soli, coi nostri tempi, la nostra voglia e le nostre capacità.

Invece no, il cantiere resta cosi, sovrano del suo immenso spazio, senza correre mai il rischio di venire disturbato

“E quello che ci meritiamo, Eduà. Non vedo perché dovremmo essere aiutati se non fanno altro che guardarseli, i problemi, senza minimamente pensare a cercare di risolverli.

Siamo bravi a fare il caffè, a cucinare, siamo divertenti, siamo una bella pazziella. Buoni per la sceneggiata e la pizza.

Per il resto, ci dobbiamo solo abituare ad essere emarginati ancora di piú.

 I giovani che vorranno studiare continueranno a cercare lavoro al Nord, e qui ci resterà solo la chiavica della gente.

Se andrà bene metteranno una bella gabbia di vetro ai contorni della città e da fuori assisteranno alle nuove corridas, fatte da ragazzini di quattordici anni che si sparano da sopra ai motorini.

Del resto, lo dicono che vogliono rilanciare il turismo, no? Abbiamo accettato i piedi in testa dagli altri?

E allora questo ci meritiamo.”.

 

Sul circolo di amici piombano, a integrarlo in maniera inattesa, la coppia di “anziani” acquirenti della villa – il pacato Antonio e la frizzante Bettina – e Maurizio – questo sì, invece, a turbarlo – l’uomo del momento di Giulia. Maurizio durerà pochissimo; Bettina invece trionferà sui giovani, imponendosi come la più fresca e vivace dei trentenni, per i quali i dieci anni trascorsi non sono stati asettici. Ma con la presenza degli attempati catalizzatori, e pur nel riverbero di insofferenze mai sopite, l’occasione farà maturare i convenuti, più di quanto ciascuno si aspettasse.

 

“Quella mattina era stata la prima volta, da quando ci eravamo incontrati, che sentivo di stare scrivendo delle pagine nuove della nostra storia insieme. Tutto fino ad allora, i litigi, le delusioni e le incomprensioni, anche i rari momenti di armonia, era stato comunque il frutto di reminiscenze, la proiezione debole di qualcosa che già era avvenuto. Stamattina invece c’è stato qualcosa di nuovo, frutto dei nuovi noi stessi, non piú ventenni, ma ancora ricchi.”.

 

La voglia di espandersi, di superare gli stretti confini della realtà individuale, di conoscere luoghi e persone nuovi, è l’aspirazione più grande in un giovane.

Da qui la capacità di “sentirsi” ovunque, di non ridursi schiavo delle abitudini lungo le solite vie della solita città.

In un finale scatenato, proprio di un crescendo sinfonico, Burattino si scopre conscio di avere molto visto e molto vissuto ma, pur nel disincanto inseparabile dall’avere già vestito il ruolo di innumerevoli adattamenti sociali, non per questo si sente meno avido di attingere ancora dall’essere di altri, dalle loro abilità non meno che dalle loro manchevolezze, e dalla realtà di nuovi posti, perché conoscere può essere l’unico mezzo per risolvere gli affannosi problemi del vivere dai quali nessuna età è indenne.

 

“Capire: è una necessità che ho sempre sentito forte, dentro di me, che ti porta a definire e descrivere qualsiasi cosa ancora prima di vederla. Con lo scopo di farla propria e diventare un po’ più ricco.”

 

Oggi un trentenne ha tutto il diritto di sentirsi cittadino del mondo.

 

 


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