dell’insurrezione contro i tedeschi invasori e la Repubblica Sociale
Italiana (R.S.I.), è senza dubbio una ricorrenza che nella storia d’Italia è
certamente più importante di quanto sia stata e sia vissuta nella
contrapposizione politica che l’ha caratterizzata per essersene, fin
dall’inizio, impossessati alcuni partiti, in particolare il Partito Comunista
Italiano. >>>
Sarebbe stato tutto sommato più
semplice ricondurre la rivolta e la sua conclusione nei termini esatti che
certamente gli storici, negli anni a venire, le riconosceranno come una
reazione, diffusa in vasti strati delle popolazioni del Nord Italia, contro
l’occupazione tedesca e il Governo di Salò. Variegate sono state, infatti, le
componenti del movimento partigiano, in parte riconducibili a partiti, il
comunista e il democristiano, in primo luogo, altre più “patriottiche”, come
quelle che Eugenio Scalfari su La Repubblica di ieri
definisce “monarchiche”, che più semplicemente si riferivano allo stato
nazionale, strumentalmente definito “Regno del Sud”, più esattamente il Regno
d’Italia. Erano reparti formati da militari che non avevano aderito alla Repubblica
Sociale Italiana e che, mantenendo fede al
giuramento prestato al Capo dello Stato, si erano mobilitati sulle montagne per
sfuggire ai bandi di arruolamento della RSI e combattere gli invasori. Reparti
sui quali si è tentato di stendere il velo del silenzio, proprio perché non
riferibili a partiti politici, nonostante il loro sia stato un apporto
certamente significativo alle operazioni militari per l’ovvia ragione che erano
gli unici inquadrati ed addestrati all’uso delle armi.
In una
visione realistica e corretta degli avvenimenti che hanno preceduto la rivolta
contro gli invasori e la Repubblica di Mussolini (del cui ruolo gli storici
scriveranno ancora per ricordare le azioni violente delle Brigate Nere, ma
anche per segnalare che la repressione tedesca è stata in qualche misura
condizionata e a volte frenata dalla presenza dell’alleato fascista), non si
può fare a meno di riandare a quel 25 luglio del 1943 quando il Re mise fine al
Governo fascista dopo un voto del Gran Consiglio sull’ordine del giorno Grandi
concordato, com’è noto, con il Ministro della Real Casa, Duca d’Acquarone e con
lo stesso Sovrano che il suo ministro aveva autorizzato a trattare con i
dissidenti del regime.
Il fatto
ha un ruolo cruciale nella dinamica degli avvenimenti successivi. Perché se
l’Italia non avesse avuto un Re che, nonostante fosse stato abbandonato dalle
forze politiche antifasciste fin dal 1922, impersonava comunque lo Stato e
manteneva l’autorità suprema sulle forze armate, la defenestrazione di
Mussolini non ci sarebbe stata. Se, cioè, l’ordinamento costituzionale fosse
stato come quello della Germania nazista, con un Capo dello Stato asservito
completamente al regime, anzi espressione del regime, l’Italia non avrebbe
potuto giungere all’armistizio e definire una pace separata con gli alleati. In
proposito vale la pena di ricordare le ricorrenti sollecitazioni di Hitler a
Mussolini di “sbarazzarsi” della monarchia.
Questo
quadro sfugge a molti perché non fa comodo, perché a quanti (Sturzo, Turati)
non avevano voluto, alla vigilia della Marcia su Roma, assumersi la
responsabilità di un governo che fermasse la rivoluzione fascista, è tornato
agevole far ricadere su Vittorio Emanuele III le loro responsabilità, fino a
definire “fuga” l’abbandono di una Roma militarmente indifendibile e possibile
oggetto di rappresaglie degli anglo-americani e dei tedeschi. Anche dal
Vaticano, oggi è accertato, erano venute significative sollecitazioni perché il
Sovrano ed il Governo lasciassero la Capitale per evitare di farne un campo di
battaglia che avrebbe portato alla distruzione dei più straordinari monumenti
della civiltà romana e della cristianità.
Ma quella
bandiera ammainata a Roma è rimasta a sventolare nei territori non occupati dai
tedeschi e, ben presto è tornata a sventolare al Nord dove i reparti
dell’esercito avevano formato le prime formazioni della resistenza antinazista.
È un dato storico che non può essere ignorato e, del resto, nei giorni scorsi i
documentari con i quali le televisioni hanno ricordato gli eventi di 70 anni
fa, molti dei reparti che sfilavano a Torino, a Milano, a Bologna erano
preceduti dalla bandiera nazionale, quella delle guerre del Risorgimento e
della liberazione di Trento e Trieste. Ed anche dai balconi delle città in
festa sventolava la stessa bandiera.
Queste
considerazioni inducono a riflettere sulla circostanza che l’Italia, a
differenza di altri nazioni, non ha una festa nazionale ma ricorda tante
diverse occasioni della storia, il 25 aprile, ad esempio, il 4 novembre,
ribattezzato festa delle forze armate, il 2 giugno, data del referendum che ha
data la vittoria alla repubblica. Solamente nel 2011, nel centocinquantesimo
dell’unità d’Italia fu ricordato il 17 marzo 1861, data della proclamazione
ufficiale del Regno d’Italia. Quella deve essere la Festa della Nazione
Italiana perché quel giorno il Parlamento subalpino, divenuto italiano, ha
votato la legge che ha proclamato la costituzione dello Stato nazionale
unitario succeduto agli stati che avevano disegnato la geografia politica della
penisola dopo il Congresso di Vienna.
Quella
data, solo quella, può dare il senso dell’unità della Nazione, così
contribuendo a superare i particolarismi culturali ed economici che negli anni
successivi al 1861 e ancora oggi alimentano contrapposizioni, anche di
interessi, che è necessario superare in un’ottica di sviluppo economico e
sociale all’interno dell’Unione Europea.