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“Madre di pietà” di Beatrice Cecaro Luigi Alviggi

Madre di pietà.jpg

La collana “SUBSTANTIA minima” della Casa Editrice “alός” è
interamente dedicata alla famiglia di Sangro, per il cui maggior esponente – il
Principe Raimondo di Sangro (1710 – 1771), mecenate ma soprattutto scienziato,
in fama di mago per l’epoca in cui visse – è ricorso da poco il tricentenario
della nascita, onorato con una mostra nella famosa Cappella Sansevero in Napoli
dal titolo: “I nostri omaggi, Principe!”. 
>>>>

Il luogo, zeppo di opere
d’arte e di celebri artefatti, è centrato intorno al famosissimo “Cristo
velato”
scolpito nel 1753 da Giuseppe Sammartino su bozzetto di Antonio
Corradini, un capolavoro di inarrivabile ed inspiegata maestria.

Nella stessa incomparabile
cornice Beatrice Cecaro, dotta discendente ed appassionata studiosa della
storia di famiglia, ha curato già diverse mostre negli anni passati. La
studiosa propone adesso un libro che indaga sulle origini della Cappella stessa:
Madre di Pietà – Ed. alός – 2010 – pp. 208, € 12,00.

Mauro Giancaspro, nella
prefazione all’opera, ci informa dell’attento e prezioso lavoro svolto dalla
Cecaro sulle fonti storiche esistenti nella locale Biblioteca Nazionale – in
particolare sul “Sagro Diario Domenicano”, ponderosa opera secentesca dovuta a
Padre Domenico Marchese – per mettere in luce aspetti particolari fin’oggi
ignorati della triste origine del luogo.

Nella Napoli vicereale del
1590, in un palazzo della famiglia di Sangro, Carlo Gesualdo principe di
Venosa, valente musicista, uccise con il supporto di tre sicari la bellissima
moglie Maria d’Avalos e il suo amante – l’affascinante Fabrizio Carafa duca
d’Andria – colti in flagrante adulterio. Il legame durato due anni, all’inizio
clandestino, era divenuto di pubblico dominio, e gli amanti sapevano anche che
la vendetta non sarebbe tardata ma l’intensità della reciproca passione
travalicò ogni convenienza sociale. Dopo un breve periodo di lontananza autoimpostasi,
i due giovani si ritrovarono più invaghiti di prima. Minuziosa e toccante la
ricostruzione fatta dalla Cecaro attraverso le numerose opere esistenti sulla
vicenda, trattata persino da Anatole France. Citiamo, p.e., dalle “Cronache
d’amore
” edite in Napoli nel 1892:

 

“Signor Duca, più mortifero mi riesce un solo momento di vostra lontananza, che mille morti le quali potessero provenire da mio delitto. Se morirò con voi, non sarò mai lontana dal mio cuore, che siete voi! Ma se voi vi ritirerete io proverò una continua morte.
Risolvetevi, dunque, o di palesarvi di sleale, con l’ap
partarvi, o di mostrarvi fedele con non abbandonarmi. Alle ragioni che avete dette doveva pensarsi prima, non ora ch’è lanciato è il dardo. Mi basta l’animo per
soffrir
il ferro, ma non il gelo della
vostra lontananza. Non
dovevate amarmi, ne
io dovevo amar voi, se avevano
da entrarvi in testa
così fatti timori: insomma io così
voglio,
così comando, ne al mio cenno si dia replica, se
non
volete perdermi per sempre…”.

“Signora,
giacché voi volete morire, io morirò insieme con voi.
Così volete, così si faccia”.

 

Anche Torquato Tasso, pur
amico di Gesualdo, non poté esimersi dal personale cordoglio per la tragica loro
fine con il sonetto “In morte di due nobilissimi amanti“, che in parte
riportiamo:

 

Piangete, o Grazie; e voi piangete, o Amori,

feri
trofei di morte, e fere spoglie

di bella
coppia, cui n’invidia e toglie,

e negre
pompe e tenebrosi orrori.

(…)

 

Piangi, Napoli mesta, in bruno manto,

di
beltà, di virtú 1’oscuro caso;

e ‘n
lutto l’armonia rivolga il canto.

(…)

 

Il palazzo in cui gli amanti
vennero assassinati nella fantasia popolare fu presto greve di maledizione, e
fumi di questa si diffusero immotivatamente sui proprietari, i di Sangro. Lo
stesso Benedetto Croce in “Storie e leggende napoletane” (1919),
parlando di un crollo parziale del palazzo, afferma: “Anche il palazzo dei
Sansevero, prossimo alla cappella, è investito da quella leggenda diabolica; e
parve castigo del cielo il crollamento di gran parte di esso, che, annunziato
lungo la notte da strani rumori, accadde una mattina del settembre 1889″.

 

La moglie di Fabrizio, Maria
Carafa di Stigliano, e la madre, Adriana Carafa della Spina, saranno le
ispiratrici della fondazione del luogo sacro, pensando la Cappella come un vero
e proprio voto, dettato da cristiana pietas, per l’espiazione e la
salvezza finale dell’anima del congiunto. Preesisteva, sul muro di confine del
luogo, una venerata immagine della Madonna della Pietà, ritenuta miracolosa.
Nello stesso 1590, il duca Giovanni di Sangro I principe di Sansevero – la cui
seconda moglie è proprio Adriana Carafa della Spina progenitrice dei di Sangro
a venire, e perciò patrigno di Fabrizio – iniziò la costruzione della voluta
Cappella che il citato Raimondo, VII Principe di Sansevero, sistemò negli anni
che vanno dal 1749 al 1770.

Cappella di Santa Maria della
Pietà o Pietatella, come ben presto venne chiamata dal popolo.

Maria, già per due anni in
monastero prima del matrimonio, si farà monaca di clausura, con il nome di
Maria Maddalena, dopo la morte del marito. Viene descritta come donna presa da
grande fervore religioso fin dalla piccola età, soggetta ad allucinazioni e a
penitenze corporali estreme, fino ad indossare sempre il cilicio, anche se darà
a Fabrizio cinque figli. Sarà succube, nel periodo matrimoniale, della suocera
Adriana, donna dispotica e di grande carisma. Il matrimonio e la mondanità
saranno da lei vissute come prove per rinsaldare la sua fede. A conoscenza del
tradimento coniugale, diverrà suo specifico tormento l’assillo per la salvezza
dell’anima del marito, moltiplicando elemosine, preghiere ed espiazioni. Dopo
l’assassinio di Fabrizio, un’altra disgrazia – la perdita del figlio prediletto
di soli 12 anni – sarà vissuta come ulteriore prova imposta dal Signore per il riscatto
suo e dello sventurato coniuge. Tutto verrà patito mai perdendosi d’animo, e
non avendo tregua nel raccomandare se stessa ed i suoi alla Divina Pietà,
confidando in un pentimento del coniuge all’ultimo istante.

Una prosa incisiva ed
accorata, frutto di un amore intenso cresciuto nel seguire la mano paterna che
la iniziava bambina agli infiniti segreti della Cappella, contraddistingue il
lavoro della Cecaro, e la memoria del padre percorre ininterrotta le pagine del
libro affiancando pietà filiale alla Pietà Divina. L’autrice è capace di
parteciparci emozioni profonde che, nate dalle irripetibili sensazioni
infantili, si sono rafforzate nel procedere lungo le strade della vita. Sa
scavare a fondo nella psicologia dei protagonisti e, attraverso i tanti
particolari storici indagati, ce li fa balzare vividi all’occhio nelle luci ed
ombre che hanno contraddistinto figure nobiliari di tanto rilievo. In un
abilissimo e voluto crescendo, riusciamo ad immedesimarci nei panni degli
attori della torbida vicenda, percepiti come tribolati fratelli scossi da travolgenti
passioni e alle cui pene prendiamo attiva parte.

In particolare le figure
della moglie e della madre vengono indagate nell’essenza più intima, mettendo a
nudo ogni risvolto  di due donne dalla
vita spezzata, due eroine degne di una tragedia greca, che non cesseranno un
attimo, per tutti i loro giorni a venire, di chiedersi perché mai il
marito/figlio abbia dovuto prima cedere e poi soccombere, appena 25nne, ad
eventi scatenati da forze troppo grandi per essere dominate.

Nella Cappella dovrebbe
essere sepolto, in forma anonima, anche il corpo di Fabrizio.

Chiudono il libro ampi
stralci tratti dai più importanti documenti storici consultati dalla Cecaro.


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