È tutt’ora avvolta dalle nubi la
biografia pittrice seicentesca Diana De Rosa e resta complesso delinearne con chiarezza il
percorso artistico, si ha persino un catalogo molto scarno delle sue opere.
Diana o Dianella/ Annella/ Lella, sono vezzeggiativi che hanno creato
confusione nel corso della storia, in prima battuta per le difficoltà nel
chiarire la sua identità, sia come persona che come pittrice, in seconda
battuta rendendo più faticosa la ricostruzione della sua carriera artistica. La
fonte principale, da secoli, è quella del suo primo biografo Bernardo De
Dominici in “Vite dei Pittori, Scultori,
ed Architetti Napoletani”, pubblicate a Napoli tra il 1742 e il 1745, egli
ce la presenta come Anna detta «Annella di Massimo», a voler
contrassegnare la sua personalità artistica alla bottega del noto pittore
napoletano Massimo Stanzione. >> >>>
Una nuova strada su Diana De Rosa
è stata aperta ed illuminata nel secolo scorso, grazie al documentarista Ulisse
Prota Giurleo, che ha ritrovato l’atto di nascita e di morte della pittrice (20
maggio del 1602 – 7 dicembre 1643, a questo si aggiungono gli studi del Antonio
Delfino, che ha trovato il documento
dell’alunnato della pittrice presso il pittore romano Gaspare de Populi . Studi
recenti hanno confermato una certa vicinanza artistica col caposcuola
partenopeo Massimo Stanzione. e con la prima donna della storia ad entrare a
far parte dell’Accademia di Arti e Disegno di Firenze, la pittrice romana
Artemisia Gentileschi. Di recente sono state attribuite a Diana de Rosa da
Giuseppe Porzio altre due tele locate dal 2007 nel Museo Diocesano di Napoli: Lo Sposalizio della Vergine e Gesù nella bottega di San Giuseppe. Le
tele appartenevano ad una serie di storie mariane situate nella tribuna della
basilica di San Giovanni Maggiore di Napoli, poi disseminate con il restante
patrimonio mobile della chiesa tra il seminario arcivescovile e i vari depositi
dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli e
provincia. Le tele sono segnate anche da una differente vicenda conservativa e
sono descritte ancora in sito dall’architetto Gennaro Borrelli, che nel 1968
provvide al restauro della basilica. L’ipotesi attributiva di Porzio è
coraggiosa, le motivazioni che l’ hanno spinto ad attribuire a Diana i due
dipinti derivano dal ripetersi degli stessi tipi fisiognomici che coincidono in
particolar modo con quelli della Nascita
della Vergine nella chiesa della Pietà dei Turchini. Egli ha ipotizzato
anche una collaborazione col pittore Agostino Beltrano, che effettivamente fu
marito della De Rosa, che coinciderebbe con la consuetudine tramandata da varie
fonti, in quanto i due coniugi erano soliti lavorare insieme. Le figure in
entrambe le tele mostrano un attento studio volto al naturalismo, alludendo
allo spazio barocco, la luce è naturale e si estende in un ambiente quotidiano,
in particolare è da notare nella rappresentazione del cesto con il cucito
accanto alla Vergine, che si discosta dall’essere solo una citazione simbolica,
similmente a un’Annunciazione di
Massimo Stanzione risalente al 1630. Gli sguardi sono intensi e tutti i
personaggi sembrano esprimere i propri sentimenti. La scena parte da sinistra con Maria che
mentre è intenta a cucire, in un lampo viene sorpresa dal dialogo di sguardi e
azioni che intercorrono da padre in figlio. Gesù sembra cercare negli occhi del
padre l’approvazione e il compiacimento, il quale gli risponde con sguardo
severo, ma allo stesso tempo l’osserva con orgoglio, possiamo notare come
questa figura sia molto vicina al San Gioacchino nel dipinto della Nascita della Vergine. Le figure delle
tele conservate nel Museo Diocesano di Napoli appaiono più grezze di quelle
della Pietà dei Turchini e meno eleganti. Corpi plastici si stagliano dallo
sfondo scuro con ombre e penombre di derivazione caravaggesca, le figure
indossano ancora panni ruvidi e pesanti. Anche i colori usati e i brani delle
vesti non si sono ancora aggraziati e sono più rudi, inoltre, differiscono dai dipinti della chiesa di
Santa Maria della Pietà dei Turchini. L’uso del colore giallo, somiglia molto a
quello usato da Pacecco De Rosa (fratello di Diana), il cosiddetto giallo o
giallorino di Napoli. Ammesso e non
concesso che le tele siano di Diana De Rosa, siccome il catalogo della pittrice
è ancora scarno e tenendo presente le poche notizie biografiche resta il dubbio
sull’identificazione del periodo nel quale queste opere siano state realizzate,
se esse siano nate nell’ambito dei contatti con la bottega di Stanzione o
appartengano ad una diversa fase della carriera dell’artista, Probabilmente per
comprendere lo stile “annellano”, bisognerebbe trovare i suoi studi, schizzi e
abbozzi, certamente ci aiuterebbero a comprendere più a fondo il suo percorso
artistico, ma che per della sventura mancano. Allo stato attuale delle cose
come ci suggerisce per definire un solido percorso stilistico di Diana De Rosa
e quindi per parlare con maggiore sicurezza d’arte annellana, possiamo solo
affidarci alle due tele della chiesa della Pietà dei Turchini e a malincuore
restano solo supposizioni e ipotesi su questa sventurata pittrice.