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“Ritrovarsi a Parigi” di Gajto Gazdanov Luigi Alviggi

Gajto.jpg

Di straordinari recuperi
psichici si ascolta in tv o si legge nelle cronache e, di recente, si è saputo
anche di ritorni alla coscienza di ammalati da lungo tempo inerti, sprofondati
in coma per traumi o cause similari. Affacciarsi ai misteri del cervello,
ancora oggi in gran parte insoluti, accende il comune interesse, fors’anche per
il timore di potersi ritrovare un giorno in tale condizione e poter quindi
sperare che i medici, sotto la pressione affettiva dei familiari, non spengano
anzi tempo le macchine che mantengono la vita. >>>continua>>>>>>

Questo romanzo racconta
dell’invito di François all’amico Pierre, incontrato dopo anni, a passare le
vacanze insieme in uno sperduto posto in campagna nel sud della Francia, senza
gas né luce, immersi nel silenzio ritemprante del circostante ma anche
nell’assenza di ogni agio civile. Pierre, contabile in una piccola azienda,
accetta subito, per pentirsene dopo poco. Ma ormai il dado è tratto e parte per
l’avventura. Il lungo viaggio in treno lo riporta all’infanzia. Lo spettro
familiare di ereditare una fortuna dalla zia Justine, sorella del padre, non lo
abbandonerà nemmeno da adulto. La zia, arricchitasi attraverso i numerosi
amanti – “una gran bella formazione, riuniti in sindacato” come li
definirà poi un’altra parente -, in un rigurgito di pentimento lascerà tutto
alla Chiesa, deludendo la famiglia in attesa. Per questo motivo Pierre si
impegnerà nel lavoro, lasciando l’intero stipendio nelle mani della madre che,
anche in condizioni economiche agiate, continuerà a essere molto economa. Poi
la guerra, la fuga dal fronte prima di essere fatto prigioniero, il tornare a
casa mal ridotto dal lungo cammino, il riprendere man mano le vecchie
abitudini. La morte del padre prima e poi della madre lo lasceranno solo nel
silenzio pauroso della casa: la radio, prima sempre accesa, ora tace per
evitare penosi ricordi.

 

Il volto di sua madre, così come lo vide tornando a casa qualche
giorno dopo il decesso del padre, si fissò, indelebile, nella memoria di
Pierre. Era seduta, col capo chino, piangeva
piano. Portava il suo eterno grembiule
sopra un vecchio vestito, con la
mano destra stringeva come sempre lo
straccio polveroso. Da quella testa pie­
gata su quel petto, da tutto quel corpo, si sprigionava una tale fatica, un dolore così irrimediabile,
che Pierre si
sentì salire le lacrime agli occhi. «Mio povero Pierrot!»,
bisbigliò lei. Si buttò a terra, abbracciò le ginocchia di sua madre come
faceva da bambino, la implorò di non preoccuparsi:
si sarebbe occupato di tutto, avrebbe la­
vorato, non le sarebbe mancato
nulla.

 

La smemorata Marie, raccolta da
François svenuta vicino alla casa sperduta nel bosco, una tra la fiumana di
gente vagante senza meta in fuga dall’invasione hitleriana, non parla, persa in
totale abulia. Si limita a vagare come un animale senza meta e senza controllo
personale nella foresta “ingoiata da una notte bestiale” – come gli dice
l’amico – e a Pierre, tra solitudine, pensieri, riflessioni, e pena per la
sventurata, scoppia in mente l’idea di portarla con sé a Parigi, per tentare un
impossibile recupero di coscienza e identità. François cerca di metterlo in
guardia dai mille impacci cui va incontro, ma lui non deflette. Vuole
risvegliare in sé la vita perduta con la scomparsa della madre, dare uno scopo
ai suoi giorni, solleticato dal fascino dell’impresa incerta e imprevedibile.

 

Non si spostava; solo le sue dita continuavano a pla­smare lentamente l’argilla. Pierre intravide la
distanza,
incommensurabile, che la separava da lui e dal suo uni­verso – e per una frazione di secondo ogni speranza
di
salvarla gli sembrò soltanto una
chimera e un delirio.
Ma questo pensiero subito si dissolse.

«A Parigi vivrà da me», riprese, «starà molto meglio che qui. Un
giorno guarirà spero, e allora ricorderemo le
parole dette oggi in questo luogo, poco prima della
nostra partenza».

 

Nell’appartamento parigino
seguiamo i lentissimi cambiamenti della donna che farebbero scoraggiare
chiunque ma non Pierre che ha trovato, oltre il lavoro, l’altro scopo della
vita e, con infinita pazienza, si alimenta di quelle minime variazioni che per
mesi rendono soltanto un poco meno amari gli sforzi e i sacrifici compiuti per
recuperare l’intelletto di chi è diventata la compagna di vita. È come una
figlia, che lava, alimenta, mette a letto, e chiude in camera quando esce per
andare in ufficio. Ed ecco un mattino, quando va a spalancare le finestre della
stanza e fa la domanda che ripete ogni giorno sin dall’inizio: “Ha dormito
bene, Marie
?”, lei pronuncia la prima parola dopo anni con voce da automa,
atona e metallica: “Bene“. L’alba di una nuova vita pare spalancarsi
innanzi a sconvolgere il passato e a far impazzire l’uomo che pensa a una
propria allucinazione. Poi, nei giorni seguenti, gli occhi di lei riprendono
una qualche espressione:

 

«Marie, capisce che sta succedendo?», gridò. «Scusi, ho alzato
la voce. Ma capisce che è un miracolo? Se sa­pesse
come l’ho atteso, questo miracolo, com’è stata
lunga l’attesa, penosa, quante volte ho perso la speran­za!
Nessuno credeva a questo miracolo, nessuno, tranne me. Non direi nemmeno che ci
credevo, ma, per me, era una questione di
vita o di morte – moralmente, capi­
sce?».

 

Tanto François quanto lo
psichiatra, che Pierre consultava regolarmente, rimangono stupefatti. Adesso il
problema di Pierre è cambiato: deve augurarsi che la donna ricordi il passato o
che rimanga, in condizione ancora menomata, con lui? Ed ecco ancora la donna
ammalarsi gravemente e Pierre passare notti e giorni accanto al suo letto per
vincere anche questa battaglia. Marie si salverà e dal malanno sbucherà quasi
la donna normale di un tempo che nessuno dei nuovi amici ha conosciuto. Ora la
sua vita potrà riprendere, e la prima domanda che le viene in mente è scontata:

 

«Dove ha trovato tanta forza? Perché l’ha fatto?».

«Perché?», si stupì
lui. «Se potesse paragonare quel che era allora a quel che è oggi, capirebbe
che questo ri­sultato non ha prezzo. Lei non era. Marie, lei non esiste­va,
capisce? Non so spiegarlo, non ho parole per descri­vere la sua condizione. Se
lei è qui, se è, semplicemente, è perché
qualche anno fa, un amico l’ha trovata sul bor­do di una strada e l’ha accolta
a casa sua. Le ho parlato
di lui, si
chiama
François
– non
ricorda?».

 

La graduale presa di coscienza
porterà nella donna il dischiudersi di un mondo nuovo, già vissuto eppure da
riapprendere come appartenente a una diversa persona, con difficoltà di
riadattamento nell’abito mentale perduto nella nebbia della lunga incoscienza.
Peraltro un abito stretto e del quale non era affatto contenta e, quando si
riguadagna qualcosa di spiacevole in condizioni ancora precarie, la negatività
del tutto emerge senza protezioni. E di sicuro non terminano le sorprese della
vicenda per il lettore.

Gaito Gazdanov (San
Pietroburgo, 1903 – 1971), figlio di un guardaboschi,  nel 1920 si trasferisce a Parigi dove farà
lavori vari, uno di questi il tassista, tenendovi un’esistenza in tutto
ordinaria. E Parigi permea il romanzo, anche se di riflesso, attraverso i
ricordi che affiorano nel narratore Pierre – p.e., la visita al Louvre – e
tanti minuti aspetti che attengono alle abitudini di vita e agli atteggiamenti
verso la società circostante. In vita le opere di questo Autore mai verranno
pubblicate in Unione Sovietica. Vi appariranno solo dopo lo smembramento
dell’URSS, a partire dagli anni ’90. Il presente lavoro è del 1966.

I passi riportati ci attestano
uno stile semplice, minutamente descrittivo, che in un certo senso ricalca
quelli che devono essere stati i giorni di Gazdanov. Notevole la rappresentazione
dei sentimenti e delle emozioni nei tre personaggi, seguiti con attenzione in
ogni fase. Non ci troviamo di fronte a un capolavoro ma di certo a un libro che
si legge con piacere, ricco di una poesia lieve che soffonde tante pagine nelle
quali i personaggi riscoprono il sottofondo della propria personalità, fatto di
piacevoli sfumature. Ci rilassiamo allora con uno scrittore di impronta
romantica, orgoglioso delle sue intime radici e avvincente per la bravura delle
descrizioni.

La donna ricorda di chiamarsi
Anne:

 

un ingenuo lirismo si sprigionava nell’attesa del giorno
magnifico in cui si sarebbe aperto davanti a lei, in tutto il suo splendore, un universo romantico e splendido, e in cui, al tempo stesso, col favore di
una
incredibile coincidenza, si
sarebbe manifestato un esse­
re con
sentimenti identici ai suoi, la cui volontà si sa­
rebbe fusa con la sua,
affinché le visioni esaltate della sua
infanzia potessero diventare realtà. Gli tornò bru­
scamente alla memoria
la propria reazione di fronte alle collezioni del Louvre, il ricordo del dolore
che aveva provato scoprendo che quei colori,
quel mondo di pro­
feti, di eroi e belle donne non esisteva, così come
non esisteva il mondo che Anne aveva
sognato.

 

è uno dei voli che l’Autore si
sente di spiccare, libero nel cielo della fantasia, alla ricerca delle
fondamenta dell’essere, delle fonti a cui si è abbeverato nell’incoscienza dei
primi anni, del sogno chiuso e intatto di un avvenire che tutti vorrebbero
trovare ad attenderli ma che pochissimi riescono davvero a incontrare nel
susseguirsi dei giorni…


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