Malgrado la rinuncia della maggioranza al traino del PD alla calendarizzazione forzata dello Jus soli in parlamento, il tema continua ad animare il dibattito nel paese, pur rappresentando un argomento tutto sommato marginale dell’agenda nazionale. Si tratta di temi delicati che meriterebbero un attenzione seria e non uno spirito di ingiustificata generosità, una spinta a regalare diritti di cittadinanza senza vera appartenenza, senza scelta, una semplice aggregazione di individui nella quale si rischia di produrre terrorismo col certificato Made in Italy.
In un mondo che ci sta mostrando, purtroppo sempre più tragicamente, come il frutto malato del multiculturalismo, portato all’esasperazione sia una società colma di pericoli e scontri culturali, tornano nel BelPaese a suonare le trombe di chi vede la cittadinanza come un buono omaggio da allegare alla spesa al supermercato.
Gli scontri razziali sempre più frequenti negli Stati Uniti, la realtà delle banlieues francesi e delle (in constante aumento) “no-go zone” svedesi (e non solo) dove vige la shari’a, per non parlare del fenomeno del terrorismo islamico ci mostrano un quadro leggermente diverso da quello idilliaco prospettatoci da chi crede che identità e radici siano mera fantasia e che per essere cittadino di un Paese basti un foglio di carta timbrato.
A conti fatti, degli attentati che hanno sconvolto l’Europa negli ultimi anni, la stragrande maggioranza sono avvenuti in Paesi con una forma (più o meno temperata) di ius soli (Gran Bretagna, Francia, Germania) e quasi sempre per opera di cittadini di prima generazione. Soprattutto in Francia, luogo simbolo della (presunta) integrazione in Europa, il fenomeno di un ritorno alle radici, alle tradizioni dei Paesi d’origine con conseguente “chiusura” nei confronti delle altre culture è sempre più forte. I fatti ci parlano inoltre di sempre più giovani che nel tornare alle origini, non lo fanno in modo sano, ma con fortissime derive radicali. E se, per guardare ai risultati a lungo termine di una politica, è sempre utile osservare chi l’ha già applicata da tempo, il quadro francese dovrebbe un attimo far riflettere chi, a casa nostra, si lancia invece con tanta veemenza verso l’elargizione della cittadinanza facile. Il fenomeno degli “europei” di prima generazione che rifiutano (più o meno radicalmente) di integrarsi, ci indica come, al di là della retorica del “volemose bene”, il sangue, l’educazione e le tradizioni siano qualcosa che prescinde dal foglio di carta. Chi nasce in un Paese straniero non ne assimila la cultura per diritto divino, ma (se lo fa) lo fa conoscendola, facendola propria, rendendola il fulcro centrale del suo stile di vita. Si può vivere in un Paese straniero senza necessariamente far finta di esserne cittadino, ci si può vivere rimanendo saldi alle proprie radici e fieri della propria identità.
La cittadinanza, la nazionalità, l’entrata in una comunità tenuta insieme da secoli di cultura e tradizioni non è una pratica burocratica, è un percorso, un qualcosa che non va sicuramente negato a priori, ma che va accertato e preso con estrema cautela. L’appartenenza ad una comunità nazionale è l’esito finale di un percorso che va costruito ed è frutto di consapevolezza, non basta il semplice episodio della nascita e non basta averne frequentato le scuole per definire sé stessi come appartenenti ad una medesima nazione. Checché se ne dica, una nazione non è il club del golf e non basta un tesserino per farne parte. Far finta che lo sia potrebbe essere ingiusto, e soprattutto pericoloso.