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Attualità
L’America al voto tra le incertezze Giuseppe Lucariello

Ci risiamo, quattro anni dopo gli Stati Uniti tornano al voto: la sfida è tra il Presidente Repubblicano uscente Donald Trump e lo sfidante del Partito Democratico Joe Biden (per chi non lo conoscesse o non se lo ricordasse è stato il Vicepresidente di Barack Obama). Biden ha vinto abbastanza agevolmente le primarie Dem battendo Bernie Sanders senza particolari problemi, mentre Trump è stato confermatissimo dal GOP con un rate approval enorme (in genere è così con il Presidente in carica). Ottenute le due nomination vanno spediti alla sfida finale di cui conosceremo l’esito il 3 novembre.

C’è una premessa fondamentale, necessaria per conoscere le elezioni americane: i sondaggi nazionali sul gradimento dei due candidati, che ad oggi leggete specialmente sui media italiani, sono fuorvianti perché non fanno riferimento alle regole su cui si basano le elezioni. Bisogna infatti tenere presente che ai fini della vittoria finale il voto popolare non conta, vi basti pensare che dal 2000 ad oggi i repubblicani hanno vinto il voto popolare una volta soltanto (Bush 2004), pur vincendo le elezioni 3 volte (Bush 2000, Bush 2004, Trump 2016); questo perché il sistema americano assegna il voto determinante per l’elezione del presidente con i grandi elettori a livello statale con la formula, ad eccezione del Maine e del Nebraska, del “winner takes it all”. Basta vincere anche di un solo voto in uno stato per aggiudicarsi tutti i grandi elettori. É in buona sostanza un sistema dove i voti si pesano e non si contano ed è, dunque, importante prendere voti e vincere negli stati giusti piuttosto che dare enormi distacchi in un singolo stato. Al netto degli stati in cui storicamente vincono i Repubblicani ed altri in cui vincono i Democratici la vera partita si gioca dunque negli stati in bilico, quelli meglio conosciuti come “swing states”: Colorado, Ohio, Florida, Iowa, Michigan, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin. È di questi Stati che sentirete parlare ed è qui che Trump e Biden si dirigeranno nelle ultime settimane di campagna elettorale, che, però, non saranno decisive come in passato, dal momento che questa volta si è già iniziato a votare in molti Stati ed in alcuni il voto viene dato per corrispondenza (Trump ha già aspramente criticato il metodo) a causa dell’emergenza Coronavirus.

Il tema centrale di queste elezioni è senza dubbio il giudizio sulla presidenza Trump: l’operato del Presidente è sempre stato messo sotto accusa e la gestione dell’emergenza pandemica è forse uno dei punti su cui Trump sembra essere più debole, anche se al momento non è chiara la portata dell’impatto che tale gestione potrà avere sul voto; certamente i sorprendenti risultati ottenuti in politica estera (trattati di pace siglati grazie alla mediazione USA tra Israele e il Bahrein e gli Emirati Arabi, oltre che tra Kosovo e Serbia) ed i numeri ottimi sull’aumento dell’occupazione fino all’inizio della pandemia, possono essere tra i suoi cavalli di battaglia. Mentre da valutare sarà l’impatto della questione della supremazia bianca e delle tensioni razziali, specialmente tra i voters black e latinos, che gli ha creato più di qualche grattacapo. Le principali critiche però piovono sostanzialmente sempre sul personaggio e sui suoi comportamenti e dichiarazioni che fanno perennemente discutere ed allora qui viene da fare una riflessione: è certamente un dato di fatto che l’atteggiamento di Trump appaia a molti sgradevole e arrogante e non servivano i suoi quattro anni di presidenza a dimostrarlo.

Ma bisogna sottolineare che l’orientamento dell’elettorato statunitense sul suo personaggio è ormai consolidato: chi lo odia continuerà ad odiarlo, chi lo ama continuerà ad amarlo, chi lo sopporta continuerà a sopportarlo. La vera domanda da porsi sta nel se Biden riuscirà o meno a raccogliere consenso tra chi non vuole più Trump ed i dubbi ci sono eccome: ha scelto una candidata Vicepresidente come la Harris che potrebbe essere mal digerita dagli americani per le sue spiccate tendenze socialiste, è stato il Vicepresidente di Obama e, a dispetto di quanto raccontino i media in Europa la presidenza Obama non ha lasciato bei ricordi agli americani. A questo si sono aggiunte le “teorie cospiratorie” sul suo stato di salute mentale, che ultimamente si sono fatte sempre più insistenti a causa delle difficoltà di espressione avute nell’ultimo dibattito ed il recente riemergere della questione Ucraina in cui è coinvolto il figlio Hunter Biden (al punto che il comitato che regola i dibattiti tra Trump e Biden ha deciso di non includere la politica estera tra i temi di discussione a dimostrazione delle difficoltà evidenti dello staff democratico).

Certo, a leggere i sondaggi non ci dovrebbe essere partita, dato che Biden è avanti, stabilmente, anche oltre il margine che gli esperti riconoscono essere il livello-soglia per garantirsi la vittoria e ad oggi, stando ai numeri che si leggono in giro, ci sono in ballo soltanto stati che Trump aveva vinto nel 2016. L’esito sembrerebbe scontato.
Tutto questo, però, vale se i sondaggi ci stanno prendendo e se stanno leggendo con attenzione i movimenti più profondi del consenso del popolo americano. Non è stato così nel 2016 e dovrebbe servire da lezione. Così come non possiamo non considerare la previsione del metodo statistico Helmut Norpoth che, invece, da Trump stravincitore, già nel 2016 era quasi il solo a darlo vincente. L’esito di queste elezioni è tutto tranne che scontato e tra qualche settimana potremmo avere enormi sorprese. Non ci resta che attendere il 3 novembre ed avremo il responso.


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