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Attualità
In Europa vincere non è l’unica cosa che conta Salvatore de Chiara

Il voto all’Europarlamento sulla presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen, oltre a far deflagrare gli attriti tra Lega e Movimento 5 Stelle, ha anche messo in luce la diversità di maturità politica, e quindi di tattica, dei due partiti di governo, evidenziando al contempo, ancora più chiaramente, come il tavolo delle nomine ai vertici dell’Unione sia adoperato, in realtà, dai vari schieramenti come spazio di decompressione ed equilibrio delle proprie componenti politiche nazionali. Questo significa che chi vinca o perda le elezioni europee è un fattore sostanzialmente secondario e che in fondo i ruoli di vincitori e sconfitti sono intercambiabili ed opposti, secondo il rilievo delle dinamiche nazionali.

La stessa scelta della Von Der Leyen risponde, dietro all’esigenza di dare una parvenza di novità in salsa rosa all’edificio europeo, ad una impellenza tutta interna alla grosse koalition che sostiene Angela Merkel in patria: salvare la pupilla della cancelliera che era poco gradita dagli alleati socialisti e tenere in piedi l’alleanza senza scontentare questi ultimi. Così, mentre la CDU in calo di consensi è riuscita a riconfermare il proprio prestigio in Europa, l’SPD, i cui eurodeputati hanno negato la fiducia alla Von Der Leyen, sono riusciti in un colpo a liberarsi di un ministro sgradito e di un probabile avversario alle prossimi elezioni politiche. Analogamente Matteo Salvini ha provato a giocare la propria tattica sullo scacchiere europeo guardando alla politica interna italiana. Il leader della Lega neanche per un attimo ha pensato realmente di poter vincere le europee dello scorso maggio, ma il suo obbiettivo è sempre stato quello di condizionare la UE, in alleanza con gli altri movimenti sovranisti europei, per ottenere vantaggi elettorali in Italia. In maniera non dissimile da quello che da anni fa, anche piuttosto bene, Viktor Orbàn, che fa la faccia cattiva con l’Unione ma, contemporaneamente, tiene i piedi ben dentro al PPE e, con il voto senza riserve alla nuova presidente della Commissione, si garantisce un ruolo nelle istituzioni europee, consolidando il proprio consenso interno. Persino il PD, nel disastro elettorale, è riuscito ad incassare una posta positiva, con l’esperto Sassoli che dallo scranno di presidente dell’Europarlamento è divenuto simbolo di sopravvivenza politica nazionale del nuovo corso di Zingaretti.

Fallito il progetto del gruppone unico eurosovranista la strategia salviniana era estremamente pragmatica, ed aveva, come lo ha tutt’ora, l’obbiettivo cardine di assicurarsi il commissario europeo alla concorrenza, poiché, nel sostanziale disinteresse leghista per quel che accade in Europa, gli è necessario portare in dote alla prossima campagna elettorale la bandiera della rappresentanza decisionale nel delicato settore commerciale, soddisfacendo e fidelizzando il proprio elettorato tradizionale di produttori del centro-nord e del nord-est che, dall’epoca delle quote latte in giù, rappresenta l’irrinunciabile bacino di voti leghista. L’azione di Matteo Salvini tra Bruxelles e Strasburgo ha, in realtà, come obbiettivo l’Italia, in particolare la presa sui territori, dove si gestisce il vero potere e si costruisce il consenso. La strada per raggiungere lo scopo passava per la richiesta netta alla Von Der Leyen di poter avere un accordo blindato sul commissario spettante all’Italia in cambio della fiducia, in mancanza, si sarebbe atteso che la ministra tedesca andasse a sbattere contro la sfiducia per poi poter riprendere la trattativa da una posizione di maggior forza.

Il soccorso dei voti grillini ha fatto fallire il progetto portandosi dietro il vento di crisi. Il Movimento 5 Stelle, con questa mossa, mostra di non comprendere le dinamiche politiche europee se davvero ritiene di poter separare la partita della Commissione da quella del Governo e, ancor peggio, il suo capo politico Luigi Di Maio peccherebbe di grave ingenuità se dovesse illudersi d’esser riuscito ad inserirsi nel grande gioco franco-tedesco con l’obbiettivo, neanche troppo velato, di piazzare a Bruxelles un proprio commissario e di accreditarsi come interlocutore credibile, nel momento stesso in cui la presenza pentastellata in Europa è divenuta quasi irrilevante. La speranza di far rientrare un nome espressione del Movimento nella prossima Commissione è una tenue illusione, che, in primo luogo, fa a pugni con la circostanza che la Lega, partito trionfatore alle europee, non può restare senza rappresentanza nelle istituzioni e, in ogni caso, agli occhi degli altri paesi europei il Movimento non è, nella prospettiva politica italiana dell’immediato futuro, un alleato su cui puntare.

Il tentativo, piuttosto maldestro in verità, ha avuto immediatamente effetti interni, portando il governo ad un passo dalla crisi ed innescando la miccia delle molte divergenze interne alla maggioranza. L’assetto definitivo della Commissione europea e la relativa battaglia sulle nomine sono appena rimandati, ma la loro definizione, almeno per quanto riguarda la componente italiana, non sarà altro che il prodotto della rideterminazione dei rapporti di forza interni del governo di Roma in atto in questa estate.
 


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